NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

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DAVIDE LIBERO











MOGGI STORY parte 4

 

Tratto da "Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi".

 

QUESTI FANTASMI (CON LENZUOLO)
Nel rutilante mondo del calcio italico li chiamano giocatori fantasma, o meglio ancora calciatori-lenzuolo. Sono giovanissimi, hanno visto il pallone solo all’oratorio, ma vengono comprati da grandi società come se fossero dei promettentissimi talenti, dei Baggio in erba. In realtà sono un espediente, una copertura per giustificare illeciti movimenti di denaro. Di solito venivano abbinati a calciatori veri, in modo da aggirare i rigidi parametri (oggi aboliti) sui cartellini degli atleti senza falsificare del tutto le relative fatture e senza incappare nella pur blanda legislazione fiscale italiana. La prassi era piuttosto diffusa, nell’Italia pallonara di qualche anno fa. E chi era uno dei maestri indiscussi della materia? Lucianone Moggi, ovviamente.

Anche lo scandalo dei calciatori-lenzuolo salta fuori da uno dei mille rivoli della mega inchiesta sul Torino di Borsano. Nell’ambiente se ne parlava da tempo, ma per scoperchiarlo deve intervenire ancora una volta la magistratura. I magistrati torinesi e la Guardia di finanza, scartabellando nei libri contabili della società granata, si imbattono nei nomi di tre giovanotti: Alessandro Palestro, Daniele (o Simone) Pastorini, e Marco Vogna. Chi sono costoro? Lo racconta il solito ragionier Giovanni Matta. A ogni acquisto o cessione di calciatore, spiega l’ex contabile del Toro di Borsano & Moggi, corrispondeva una quota di compenso occulto, non dichiarato, e coperto appunto da un cartellino-lenzuolo.

Il caso Palestro, per la verità, era già emerso nell’assemblea degli azionisti granata del 1992, quando un socio di minoranza si era alzato a domandare gelando i presenti chi fosse mai quel tale Palestro, registrato a bilancio accanto alla somma da capogiro di un miliardo e 140 milioni. La cosa aveva interessato anche l’Ufficio inchieste della Federcalcio, che all’epoca aveva interrogato proprio Moggi, salvo poi archiviare tutto con la velocità della luce. Adesso quella storia, arricchita di altri casi gemelli, approda alla Procura torinese. E le conferme al racconto di Matta arrivano dai dirigenti delle società che hanno concluso affari di calciomercato con il Torino del duo Borsano-Moggi. Il primo è Davide Carlo Scapini, segretario generale del Genoa, che ha appena acquistato dal Toro il centravanti Marco Pacione.

E visto che il club granata pretendeva un prezzo superiore a quello fissato dal parametro, la società genoana ha dovuto accollarsi la spesa per un calciatore inesistente: tale Vogna. Bravo ragazzo, per carità: solo che non ha mai giocato nel Toro, dunque non dovrebbe costare un bel niente. E invece risulta regolarmente tesserato dal club torinese, e profumatamente pagato da quello genovese. Interrogato dalla polizia giudiziaria, il giovanotto ammette candido di non aver mai saputo di quel tesseramento, né tantomeno di essere stato ceduto al Genoa.

L’imbroglio lo racconta Scapini: «I contratti di Pacione e Vogna non sono regolati dal punto di vista federale, e fanno parte di uno schema e di un modo di operare comune nel mondo del calcio... quando le regole federali non prevedevano la possibilità di cedere dei giocatori in comproprietà. Nel luglio 1990 il Genoa aveva acquistato dal Torino il calciatore Pacione; federalmente era necessario fare risultare la cessione a titolo definitivo e così fu fatto. Viceversa c’era un accordo integrativo al contratto, secondo cui il Genoa acquistava il 50 per cento dei diritti alle prestazioni di Pacione per un miliardo e 100 milioni con riserva a fine stagione di regolarizzarne la posizione attraverso nuovi accordi. L’anno successivo, poiché il calciatore non era andato male, il Genoa decise di acquistarlo a titolo definitivo per un importo pari a un miliardo e 100 milioni. Il presidente Aldo Spinelli mi comunicò questa volontà della società e mi disse di pensare alla regolarizzazione amministrativa. Di fatto era necessario giustificare il passaggio del denaro dal Genoa al Torino e ciò formalmente non poteva essere addebitato al contratto di Pacione, di per sé già concluso».

E chi entra in scena per mettere le cose a posto violando le norme? Lucianone, ovviamente. «Ebbi un incontro», prosegue Scapini, «alla sede del calcio mercato, con Moggi e Pavarese, rappresentanti del Torino calcio. Decidemmo, per dare copertura al passaggio del denaro, di far figurare come ceduto al Torino un giovane calciatore, nel caso specifico Vogna. Io ritirai i moduli di cessione che in precedenza erano stati firmati in bianco da Spinelli. Non so dire se Vogna fosse a conoscenza della questione... Vogna, essendo un giovane di serie, non aveva diritto a nessun tipo di contratto che prevedesse dei compensi. Sulla base di questo contratto avvenne poi il passaggio di denaro relativo alla risoluzione della compartecipazione di Pacione».

Il ragazzo, senza aver mai visto un pallone e una maglia del Torino, secondo i maneggi di Moggi valeva già un miliardo e 100 milioni. E non era l’unico. Lo stesso espediente, stavolta per giustificare il passaggio del centrocampista Francesco Romano dal Torino al Venezia, viene architettato da Lucianone con un altro giocatore-fantasma: Alessandro Palestro, nato a Torino il 30 aprile 1975 e valutato nientemeno che 1.140 milioni. Il ragazzo, almeno lui, qualche rapporto col Torino calcio ce l’ha: è infatti figlio di Susanna Paroletti, la segretaria della società granata che secondo Borsano «è alle dirette dipendenze di Moggi e Pavarese».

Il giovanotto risulta essere un promettente portiere delle giovanili. Peccato che viva a Bruxelles (con il padre, funzionario Cee), ignaro di tutto e dedito più agli studi che agli stadi. Ecco il racconto della madre del ragazzo, il 14 luglio 1993, davanti alla Guardia di finanza: «Se non ricordo male, il signor Pavarese, segretario generale del Torino, ha predisposto i moduli per il tesseramento di mio figlio, allo scopo di giustificare contabilmente l’ingresso nel Torino calcio di un miliardo e 140 milioni, che in effetti si riferivano all’acquisto da parte del Venezia del giocatore Romano. Mi fu chiesto dai miei superiori di tesserare mio figlio, anche se non avrebbe dovuto mai giocare: mio figlio non è un bravo calciatore. Non mi fu offerto nessun compenso, e neanche lo chiesi... Del contratto Romano, a cui si riferisce la somma indicata sul contratto di mio figlio, sono venuta a conoscenza soltanto in seguito agli articoli di stampa e alle spiegazioni che mi furono date dallo stesso Pavarese... La questione relativa a mio figlio mi è stata presentata come una cosa normale dai miei superiori, e io non avevo ragione per non credergli: io stimo molto il signor Pavarese».

La signora esibisce ai finanzieri il modulo della Federazione italiana gioco calcio-Lega nazionale professionisti col quale l’ignaro giovanotto è stato tesserato come giovane di serie del Torino calcio: in basso a destra, campeggia il timbro, con tanto di firma autografa, «Torino calcio Spa. Direttore generale, Luciano Moggi». Stesso timbro e stessa firma impreziosiscono altri due documenti ufficiali: quello con cui Palestro subisce il trasferimento definitivo al Venezia, e quello con cui Moggi e Maurizio Zamparini, presidente della società lagunare, il 7 novembre 1991 hanno pattuito il prezzo del finto campioncino: «Importo globale dell’operazione: un miliardo 140 milioni», pagamento biennale in due rate da 570 milioni. Documenti fasulli, contratti da magliari, firmati Luciano Moggi.

Borsano conferma tutto: «La cessione del calciatore è stata gestita in totale autonomia dal signor Moggi, per quanto riguarda i rapporti sia con il Venezia calcio, sia con la famiglia del ragazzo. Ne sono venuto a conoscenza durante la stesura del bilancio. Comunque i casi Palestro sono la regola nel mondo del calcio, e tutti i giornali sportivi lo sanno. Perché allora non contestare i bilanci di tutte le società calcistiche, ma limitarsi al Toro?». I magistrati Sandrelli e Prunas gli domandano anche di Pastorini, altro calciatore-lenzuolo legato alla cessione di Massimiliano Catena al Cosenza, e Borsano risponde: «Nulla so di false firme per Pastorini. È un nome che non mi dice nulla, anche se apprendo essere un finto giocatore. Sono cose che organizzarono Moggi e Pavarese. Il Pavarese è mero esecutore di Moggi».

L’operazione Catena la spiega meglio Maurizio Casasco, già direttore sportivo del Torino dall’aprile 1989 fino all’aprile del 1991 poi, dice, «fui costretto ad andarmene per l’avvento di Moggi», che peraltro lavorava dietro le quinte per conto di Borsano fin dal «dicembre 1990». Racconta Casasco: «Catena fu dato in comproprietà dal Torino al Cosenza. L’anno successivo il giocatore sarebbe rientrato al Torino o sarebbe rimasto al Cosenza con effettivo passaggio di denaro. Quella fatturazione (per Pastorini, ndr) fu fatta per non fare del nero. Ci servimmo di un giocatore fittizio». Anche il successore di Borsano alla presidenza del Toro, il notaio Roberto Goveani, riferisce che quei giocatori erano dei fantasmi: «Ammetto, per quanto poi venni a sapere, che l’operazionerelativa al giocatore Palestro era inesistente. Io venni a sapere della cosa soltanto nel mese di luglio 1993, quando fu richiesta (dai magistrati torinesi) la documentazione relativa a questo giocatore... Ho parlato del fatto con Moggi. Costui mi ha confermato che l’operazione serviva a coprire la vendita di Romano».

Stessa versione fornisce l’amministratore delegato del Toro di Goveani, Giacomo Randazzo (già segretario generale dell’Atalanta e amministratore delegato del Verona): «La vicenda del giocatore Palestro, che io ho rilevato al mio arrivo... è una situazione che non è isolata nel mondo del calcio. Sapevo che era stata fatta (anche) in altri ambienti. Ho esaminato il contratto di vendita del Palestro. Porta la data del 1991 ed è stato siglato dal signor Moggi Luciano e, per il Venezia, dal presidente Zamparini».

A Zamparini non resta che confermare tutto: per comprare Romano dal Torino aveva dovuto accollarsi anche Palestro. «Acquistai Romano trattando con Moggi. La cifra di acquisto era lire 2 miliardi. Il pagamento era biennale. Mai sentii nominare il giocatore Palestro. Dopo circa 3-4 mesi, l’amministratore delegato (del Venezia) mi informò che era stato necessario inserire nell’operazione tale Palestro, in quanto a parametro Romano avrebbe consentito una quotazione più bassa di quanto pattuito... Mi venne detto che quella era una prassi regolare per evitare passaggio di denaro in nero. Trattai personalmente soltanto con Moggi... Tutto il discorso avvenne con Moggi, ma non parlai mai del giocatore Palestro. Io credevo, quando mi fu raccontata la storia di Palestro, che costui fosse un giocatore del settore giovanile del Torino calcio, non una invenzione, come ho saputo dopo... Quella prassi, secondo me, è dato notorio presso la Lega. Secondo me era una routine conosciuta: basti pensare che il prezzo per lo sconosciuto Palestro era di 1,2 miliardi circa, e per il noto Romano era soltanto 800 milioni. Questo squilibrio parlava da sé...».

Lucianone, davanti ai magistrati, si difende dicendo che lui non sa niente: «Non mi sono mai occupato di aspetti amministrativi, per cui la vicenda non mi riguarda. Anzi, nell’occasione di Palestro feci del bene al Torino, perché feci incassare alla società, in maniera legale, dei soldi che altrimenti sarebbero stati illegali. E sapete quale era la situazione economica del Torino...». Purtroppo per lui, questa versione strappalacrime dell’ignaro benefattore non commuove i pubblici ministeri.

La danza dei fantasmi inscenata da Lucianone non finisce qui. Un altro caso emblematico ha un nome esotico: Marcelo Saralegui, classe 1971. Nel 1992 Moggi preleva Saralegui dall' Uruguay, dove milita nel Nacional Montevideo, senza troppa fatica, tramite il suo amico Paco Casal, procuratore di tutti gli uruguagi approdati in Italia (Aguilera, Ruben Sosa, Francescoli, Herrera, Fonseca). Chi sia questo Saralegui, in Italia nessuno lo sa: pare che abbia giocato qualche scampolo di partita in Nazionale nell’ultima Coppa America, ma nessuno se ne è accorto. Nessuno, tranne Lucianone e Casal. Nelle redazioni sportive, il giorno dell’annuncio (6 agosto 1992), corre il panico: del nuovo acquisto granata non esistono fotografie né schede biografiche, niente di niente.

L’indomani, nel corso di un’esilarante conferenza stampa, mentre Torino è ancora scossa dalle proteste della piazza granata per la vendita di Lentini al Milan, Lucianone e Paco presentano Saralegui come una specie di nuovo Maradona, anzi «il Tardelli del Sudamerica, il più promettente uruguaiano della nuova generazione». Poi il campione viene finalmente esibito ai giornalisti: un ragazzone con un cespuglio di capelli ricciuti che gli coprono la fronte e le sopracciglia. Non sorride mai, nonostante le panzane che gli mettono in bocca (promette addirittura lo scudetto, pur avvertendo modesto com’è che «non sarà facile»).

Paco Casal che ha già tentato invano di rifilare il giovanotto all’Atletico Madrid e al Cagliari, ricevendone due perentori rifiuti è felice come una pasqua: «Marcelo è la bandiera del calcio uruguayano». Ma certo, come no. Finalmente qualcuno ci è cascato: Borsano. «È un arrivo importante», annuncia tutto soddisfatto il presidente buggerato, «è la conferma che il Toro non smobilita, e crede nei giovani. Marcelo è il nuovo fenomeno del calcio uruguaiano, un mediano difensivo con il vizio del gol, lo si può impiegare sia sulla destra che sulla sinistra. Già da tempo era nel taccuino del nostro Luciano Moggi. Me l’ha segnalato Aguilera, e se ha passato il giudizio di Moggi vuol dire che non abbiamo sbagliato. Si tratta di un vero investimento».

Infatti il Toro paga Saralegui la bellezza di 5 milioni di dollari (7 miliardi e mezzo di lire del 1992, oltre 10 di oggi), più 600 milioni all’anno di ingaggio al giocatore, con contratto triennale, fino al 1995. I giornalisti, però, non abboccano (non tutti, almeno). Così, per vincere lo scetticismo, Casal e Lucianone portano i cronisti in un ufficetto munito di televisore per mostrare loro una videocassetta che promette mirabilia: «Vedrete di che cosa è capace Marcelo!». Dalle immagini si intravede in lontananza un tipino che somiglia a Saralegui e che sgambetta su campi dall’erba mal tagliata, segnando qualche gol dalla linea di porta, o giù di lì. Ma pochi ci fanno caso. Il bluff viene alla luce ben presto, quando il presunto talento di Montevideo raggiunge il ritiro della squadra granata e si mette a disposizione dell’allenatore Mondonico. Qualche partitella di allenamento senza quasi toccare palla, qualche sprazzo di precampionato. Poi la prova della verità: il campionato. Su 34 partite, Saralegui giocherà la bellezza di 3 minuti e mezzo. Per il resto, posto fisso in tribuna.

La stagione seguente, peggio ancora: un minuto e una manciata di secondi, naturalmente a fine partita, col risultato già al sicuro, per non fare troppi danni. Il nuovo Tardelli, incompreso, nell’estate 1994 verrà rimpatriato alla chetichella col primo volo per l’Uruguay e con un anno di anticipo sulla scadenza del contratto. Perché Moggi aveva comprato Saralegui con tanta enfasi e tanti quattrini (di Borsano)? «L’operazione Saralegui, condotta insieme al signor Moggi, era indissolubilmente legata all’ingaggio di Aguilera dal Genoa», racconta Borsano ai magistrati.

In pratica, l’ingaggio del giovane uruguaiano era una messinscena architettata dal solito duo Moggi-Borsano per coprire la seconda parte del prezzo d’acquisto di Aguilera, passato nel 1991 dal Genoa al Torino. Non che Saralegui fosse proprio un giocatore-lenzuolo come gli altri: qualche partita, almeno nel suo Paese, l’aveva giocata. Un calciatore-trapunta, si potrebbe dire.

Gli avvocati di Moggi riescono a dimostrare che il trucco dei giocatori-fantasma non ha danneggiato le casse dello Stato: la cessione di giocatori, infatti, gode di un’aliquota Iva agevolata, mentre con quelle transazioni le società pagavano l’Iva ordinaria. Niente frode fiscale, dunque. Rimane però il reato di violazione di un altro articolo della legge 516/1982 detta anche manette agli evasori: quella che punisce le scritture contabili false e le fatturazioni fasulle.

Per questo reato la Procura di Torino chiede il rinvio a giudizio di Borsano, Goveani e Zamparini, nonché del solito Moggi. Costoro, scrivono i magistrati, «con reiterate iscrizioni di fatture per operazioni inesistenti relative alle prestazioni calcistiche dei giocatori Palestro, Vogna, Catena, Saralegui, Aguilera, Pastorini, (tenevano) in guisa inattendibile nel contenuto le scritture e i libri contabili del Torino Calcio (libro giornale, registro fatture, registro corrispettivi, registro degli acquisti) a causa delle gravi e ripetute (per ogni fattura) irregolarità sovradescritte concernenti le operazioni di acquistocessione delle prestazioni delle dette persone».

Anche questo capitolo degli scandali Moggi-Torino approda sul tavolo del Gip Piera Caprioglio. E qui, per evitare guai peggiori, Lucianone, Borsano e Goveani si affrettano a sborsare qualche lira a titolo di oblazione: una specie di multa preventiva, utilissima per estinguere il reato e uscire dai guai al più presto. Scrive comunque il Gip: «Non ricorrono i presupposti per una pronuncia assolutoria con ampia formula, visto che dal punto di vista oggettivo si è trattato di irregolarità gravi, numerose e ripetute e che dal punto di vista soggettivo emerge che, attesa la finalità perseguita, nota a tutti i partecipi, tutti gl’imputati non potevano che essere consci della attività illecita intrapresa.

Le fatture per ogni giocatore furono più di una. Le irregolarità presentano un notevole grado di gravità, trattandosi di falso ideologico che investiva l’intero negozio commerciale, con simulazione che aveva di mira l’alterazione della realtà convenzionale rispetto a quella reale. Non è pensabile che questa irregolarità sia equiparabile a un semplice difetto di vidimazione. Trattasi comunque di fattispecie configurante reato abituale, per cui è richiesta condotta plurima, nel caso di specie pienamente dimostrata». Ma dal momento che Borsano, Moggi e Goveani hanno sganciato qualche lira (circa 300 mila a testa, per la precisione: i parametri delle oblazioni sul Codice penale sono piuttosto vecchiotti), il giudice Caprioglio, il 20 giugno 1994, «dichiara non luogo a procedere» nei loro confronti «perché il reato è estinto per intervenuta oblazione». Non c’è niente da dire, Lucianone è proprio Lucky...

Intanto, come per miracolo, si riscuote dal letargo la giustizia sportiva. Viene riesumato il fascicolo Palestro, precedentemente archiviato, e vengono sanzionati i responsabili con pene da solletico: Moggi rimedia la squalifica per un mese dall’attività sportiva. Quasi un premio: trenta giorni di ferie.

LUCIANONE FRODA IL FISCO
Nel Torino del bancarottiere craxiano Gian Mauro Borsano, Lucianone si è trovato perfettamente a proprio agio. E ne ha combinate anche lui di cotte e di crude. Così, l’inchiesta dei magistrati torinesi fa emergere a carico dell’ex ferroviere un altro reato, un’accusa che la dice lunga sullo spregiudicatissimo modus operandi moggiano: reati fiscali legati a un giro di disinvolte compravendite di giocatori in erba. Stavolta, se non altro, si tratta di giocatori veri.

Tutto nasce, ancora una volta, dagli appunti del ragionier Giovanni Matta, il contabile del Toro col vizio del diario. Nelle sue agende, tra l’altro, si legge: «Agostini classe 1972, Chiarini classe 1974, Belli classe 1974. Preliminari di cessione in data 23 gennaio 1991 con la Lodigiani. I giocatori verranno trasferiti al Torino a titolo definitivo (ma nella società in prestito) con pagamento tramite Lega nel 1991-92 rispettivamente di 190, 190 e 350 milioni. Entro 30 aprile 1992 il Torino potrà riscattare definitivamente i giocatori pagando poi tramite Lega nel 1992-93 ulteriori somme di 90, 90 e 200 milioni. Se il Torino non eserciterà il riscatto, dovrà ritrasferire gratuitamente alla Lodigiani. Non era più semplice un trasferimento temporaneo con opzione per l’acquisto definitivo?».

Il meccanismo annotato dal ragioniere del Toro sembra complicato, ma in realtà è piuttosto semplice e ingegnoso: serve, ancora una volta, per aggirare la legge fiscale. I tre giocatori, scrive la Procura, «furono negoziati in maniera quantomeno anomala: per essi esisteva una clausola che prevedeva la restituzione gratuita se non fosse stata esercitata la opzione di acquisto definitivo, pur avendo la società torinese già sborsato somme rilevanti». Situazioni accertate dalla Guardia di finanza e definite dai magistrati «davvero inspiegabili: l’acquisto del Torino a cifra sostenuta e la restituzione a Lodigiani spa gratuitamente... Il che può giustificarsi con la volontà di sottrarre gli ingaggi ai formalismi imposti dagli organismi (cioè dalla Lega nazionale calcio, ndr)». E non solo: «Fra Torino e Lodigiani si dedussero anche altre intese che riportano l’alterazione fatturativa a finalità di evasione fiscale».

È lo stesso Borsano a confessare che l’Associazione Lodigiani calcio spa era uno dei tramiti per il «procacciamento di ricchezze da gestire extra-contabilmente». Cioè di fondi neri, rastrellati con la «sopraffatturazione di giocatori acquistati dal Torino con successive restituzioni del surplus in nero». I giovanotti venivano strapagati dal Torino, ben oltre il valore effettivo, e la Lodigiani restituiva sottobanco la differenza alla società granata.

Il ragionier Matta conferma tutto, per un ammontare di almeno 200 milioni di lire: «La provvista di denaro era portata al Torino calcio da Moggi... Essa era accreditata ai conti della società presso la Banca Brignone». Anche Goveani sia pure per sentito dire conferma: fu Borsano, passandogli le consegne, a informarlo che la società romana serviva al Torino per creare fondi neri, e del resto «le trattative erano seguite dal Moggi». A quel punto, lo stesso Moggi deve ammettere di aver ritirato quel denaro dalla Lodigiani (dalle mani dell’amministratore, tale Malvicini) portandolo a Matta. Per i magistrati è soltanto un piccolo assaggio della giungla di violazioni che caratterizzavano le campagne acquisti del Torino gestite direttamente da Lucianone.

Nella richiesta di rinvio a giudizio per frode fiscale, la Procura di Torino parla di un «pesante velo di artefazione contabile e fatturativa su tutta la vicenda», poiché «tutte le vicende che attennero alle cessioni di calciatori di Torino calcio spa furono inquinate da una pesante elusione delle direttive della Lega calcio in materia di comproprietà, di prestito, di limiti temporali alla cessione. Di sicuro falsificazioni a livello di fattura vi furono, come ammesso da tutti i protagonisti della gestione della squadra torinese».

Stavolta, dunque, oltre alla «lesione delle regole del settore sportivo», c’è la certezza della frode fiscale: «Violazione dell’art. 4 della legge 516-82... Protagonisti della vicenda furono Borsano e Moggi, quest’ultimo indicato anche da Malvicini come l’organizzatore degli incontri con Borsano e come colui che ritirò le buste che, per tre volte consecutive, Malvicini indirizzò all’amministratore della squadra torinese». Insomma, secondo i magistrati, Moggi «partecipò all’intesa di alterazione ideologica dei valori di fattura».

E il fatto che Lucianone fosse perfettamente al corrente dei fondi neri del club granata, risulta anche da un altro particolare emerso dalle pieghe dell’inchiesta. Goveani, nell’interrogatorio del 16 giugno 1994, indica un’altra provvista di nero, ricavata vendendo i biglietti omaggio della tribuna d’onore dello stadio nel maggio 1993. Quei fondi occulti erano serviti, in precedenza, per pagare le rate d’affitto degli alloggi di alcuni giocatori e dello stesso direttore sportivo Moggi. E lui, Lucianone, ha dovuto confermare «la percezione di questo benefit riservato». Pertanto concludono i magistrati Moggi «era al corrente dell’esistenza del fondo». Dunque deve essere processato.

Il Gip Piera Caprioglio lo rinvia a giudizio. E Lucianone corre subito ai ripari: per evitare il processo con pubblico dibattimento e prevedibili echi di stampa, decide di patteggiare la pena. Che gli viene inflitta il 27 gennaio 1996: «Tre mesi di reclusione e lire 3 milioni di multa». La reclusione viene poi sostituita con altri 2 milioni e 250 mila lire di multa. Sentenza per frode fiscale definitiva e inappellabile.

I fondi neri sono una costante di tutta la gestione granata del duo Borsano-Moggi. Un malaffare che non attira le attenzioni dei soli magistrati italiani. Nel 1995, il giudice istruttore del Tribunale di grande istanza di Marsiglia che sta processando Bernard Tapie per analoghi maneggi e illeciti nella società calcistica di cui è presidente l’Olympique Marsiglia scoperchia un altro scandalo: quello relativo alla cessione del centrocampista spagnolo Rafael Martín Vázquez dal Torino alla squadra francese. Un trasferimento piuttosto misterioso, visto che Vázquez all’Olympique è rimasto meno di due mesi: Tapie lo ha subito girato al Real Madrid.

Vázquez era approdato a Torino nel 1990, restandovi per due anni. Poi nel 1992 il presidente Borsano, travolto dagli scandali e dai debiti, aveva deciso di cederlo al gemello Tapie (anche lui deputato socialista, anche lui patron pallonaro, anche lui nei guai con la giustizia). La trattativa, conclusa nell’agosto 1992, era stata condotta da Borsano e Moggi per il Toro, dal direttore generale dell’Olympique Jean-Pierre Bernes, e dal procuratore del calciatore, Ricardo Alberto Fuica (un argentino con residenza a Miami). Prezzo ufficiale: 4,5 miliardi. Ma Vázquez a ottobre era già finito al Real Madrid per almeno 6 miliardi. E dire che soltanto un anno prima, quando l’aveva chiesto una prima volta a Moggi, Tapie era disposto a pagare sull’unghia 10 miliardi. Ora la quotazione del giocatore era scesa improvvisamente alla metà.

Ma non è tutto: Tapie era a corto di liquido, e aveva proposto al Torino che aveva subito accettato un pagamento rateizzato in 18 mesi. Le ultime due rate erano di competenza di Roberto Goveani, subentrato nel frattempo a Borsano, ma il notaio torinista sostiene di averne incassata solo una, e pagata per giunta in ritardo: l’ultima, Tapie non l’avrebbe mai saldata. A questo punto scatta l’inchiesta della magistratura francese. Nel maggio 1995 arriva da Marsiglia una richiesta di assistenza giudiziaria (rogatoria) rivolta al Gip di Torino Ombretta Salvetti. La quale, affiancata da un ufficiale dei Carabinieri, interroga i protagonisti italiani della vicenda.

Il primo della lista è Borsano, sentito il 5 giugno: «Le trattative furono fatte da me e Moggi direttamente con Bernes. Non avendo l’Olympique il contante per pagare il giocatore, il Torino calcio accettò un pagamento rateizzato, mi sembra di 18 mesi, e l’Olympique emise delle tratte (cambiali, ndr) a favore del Torino, avallate dallo stesso Bernard Tapie. Il quale pagò soltanto una parte della prima scadenza; delle altre non so dire nulla in quanto cadono sotto la gestione Goveani, presidente a me succeduto dal gennaio 1993... Nell’inchiesta nei miei confronti, in merito alla gestione del Torino calcio, ho ammesso all’Autorità giudiziaria dei pagamenti fiscalmente riservati. Nel caso di Martín Vázquez non mi risulta, anzi lo escludo, che in sede di cessione del calciatore vi sia stata una corresponsione in nero a me o al Torino».

Quanto alla provvigione per Fuica, Borsano per non sbagliare largheggia: «Per un trasferimento è prassi consolidata che un procuratore prenda dal 10 al 15 per cento». Il 20 giugno tocca a Goveani: «Non ho mai sentito nulla circa una somma di 540.000 dollari versata in nero al Fuica Ricardo, a seguito della cessione di Martín Vázquez. Circa la percentuale, ritengo che il 15 per cento quale provvigione sulla vendita di un giocatore sia eccessiva, soprattutto se rapportata al valore: cioè, più è alto il valore, più bassa è la percentuale. In genere in Italia la provvigione va dal 5 al 10 per cento, pagata solitamente dal compratore. Perché la società che compera definisce l’ingaggio del giocatore con il procuratore».

Fuica arriva alla Procura di Torino il 1° luglio. Avvertito «dell’obbligo di rispondere secondo verità», dichiara che per la compravendita di Vázquez «trattai con Borsano e Moggi». Poi ne racconta di tutti i colori: «Mi pare che il prezzo del giocatore sia stato pattuito in 1.200.000 dollari americani (circa 2 miliardi di lire, ndr): deduco ciò dal fatto che il mio compenso fu di 500.000 o 600.000 dollari e che io di solito percepisco il 20% del valore del contratto. Non escludo che in realtà sia stato pagato di più senza che io lo sapessi, quello che hanno fatto le società fra di loro non è a mia conoscenza. Ebbi problemi a percepire la mia percentuale, infatti soltanto una parte del denaro mi fu versata subito, circa 400.000 dollari, mentre per il resto inizialmente Tapie mi rilasciò un documento avallato da lui in forma personale e io per esigere il mio credito dovetti (agire) per le vie legali presso il tribunale di Marsiglia; l’azione la feci per 100.000 dollari e fui poi pagato a rate... Io non percepisco una cifra particolarmente elevata rispetto agli usi in questo campo, per i giocatori famosi». Dunque, volendo dar retta a Fuica, il 20 per cento di 1.200 sarebbe 500 o 600. Purtroppo per lui, la matematica è un’altra cosa: se davvero Fuica ha percepito una mediazione di 600 mila dollari pari al 20 per cento dell’operazione, non c’è che una spiegazione: per Vázquez, Borsano e Moggi hanno pattuito con Tapie almeno 3 milioni di dollari, circa 5 miliardi di lire. Se poi la mediazione di Fuica era come dice Borsano soltanto del 15 per cento, il prezzo sale a 4 milioni di dollari, oltre 6 miliardi. In ogni caso, i 4 e mezzo dichiarati sono di molto inferiori alla realtà. E le domande ai protagonisti su eventuali pagamenti in nero indicano che la magistratura marsigliese nutre forti sospetti in tal senso.

A questo punto il giudice torinese dovrebbe interrogare anche Moggi. Ma stavolta Lucianone preferisce non farsi vedere di nuovo nei corridoi del tribunale: dopotutto è già il direttore generale della Juventus. Così, al termine di un’estenuante trattativa con i magistrati, se la cava inviando una smilza memoria di sette righe dattiloscritte, elaborata dai suoi avvocati. Memoria si fa per dire, visto che Moggi ha un vuoto di memoria e non ricorda quasi niente (a meno di tre anni di distanza dai fatti): «Ricordo che all’epoca in cui ero alle dipendenze del Torino calcio, venne ceduto il predetto giocatore (Martín Vázquez, ndr) alla squadra di calcio Olympique di Marsiglia. Nell’occasione, per quanto a mia conoscenza, i rapporti sono stati regolari, e non sono assolutamente al corrente di versamento di somme non contabilizzate al giocatore o ai suoi incaricati. Al proposito, non rammento particolari degni di nota nella trattativa o negli interventi del procuratore del giocatore, Fuica. Con osservanza, Luciano Moggi».

Il giudice di Torino trasmette ai colleghi di Marsiglia la documentazione raccolta. In definitiva, quanto abbia davvero fruttato la vendita di Martín Vázquez al termine della trattativa gestita dal duo Borsano-Moggi, e se per caso qualche banconota sia rimasta attaccata alle dita di qualcuno dei protagonisti sotto forma di fondi neri, resterà per sempre un mistero.

LUCIANONE E LO SCANDALO LENTINI
Nell’estate del 1992 la città di Torino è scossa dalle pubbliche proteste dei tifosi granata. Il presidente Borsano dopo un lungo tira e molla fra Juve e Milan che si contendono a suon di miliardi il gioiello del Toro Gianluigi Lentini, dichiarato incedibile fino al giorno prima cede alle lusinghe del craxiano di Arcore e conclude l’affare della sua vita. Lentini passa al Milan per 22 miliardi ufficiali, più una decina di miliardi che Berlusconi (tramite l’amministratore delegato milanista Adriano Galliani) gli versa in nero su un conto estero. Ma questo lo si scoprirà soltanto un anno dopo, in piena inchiesta sul Torino calcio. Ma dallo scandalo Lentini sempre nel 1993, e sempre dalle confessioni di Gian Mauro Borsano emerge un’altra storiaccia losca che dovrebbe far rizzare i capelli anche ai giudici sportivi. I quali, invece, come al solito, fingono di essere calvi.

È il marzo 1992. L’onorevole Gian Mauro Borsano è a corto di soldi, con le sue aziende sull’orlo del fallimento. Decide di vendere un po’ di argenteria: e gli unici pezzi pregiati sono alcuni calciatori del vivaio granata, che nel frattempo hanno fatto strada in prima squadra. Il più ambìto dal mercato è, appunto, Gianluigi Lentini. Borsano lo promette al Milan, che lo vuole a tutti i costi. Pare che Bettino Craxi in persona tifoso del Torino, ma soprattutto sodale di Silvio Berlusconi intervenga pressantemente perché l’affare vada in porto. Rimane però da convincere il giocatore, che di muoversi da Torino, dove risiedono la famiglia e la fidanzata, non ne vuole sapere; lui preferirebbe, piuttosto, cambiare sponda del Po e accasarsi alla Juventus di Giampiero Boniperti, che gli fa una corte serrata. Ma questi, per Borsano, sono dettagli irrilevanti: abituato a comprare tutto alla maniera del suo modello Berlusconi l’onorevole presidente del Toro è convinto che prima o poi, con le buone o con le cattive, riuscirà a convincere il prezioso giovanotto.

Così, fin da marzo, Borsano si impegna sottobanco con il Milan a cedergli il campione, in cambio di un sostanzioso anticipo, ovviamente in nero: 5 miliardi, o giù di lì. Ma di contratti ufficiali siamo nel mese di marzo, in pieno campionato non se ne può nemmeno parlare, il calciomercato comincerà soltanto a giugno: fino ad allora è vietata qualsiasi trattativa. Però il Milan non si fida di Borsano, e prima di sganciare quella somma illecita oltretutto non registrata, e quindi non dimostrabile di fronte a eventuali contestazioni pretende delle garanzie. E quali garanzie può offrire un finanziere sull’orlo della bancarotta? Idea geniale: Borsano offre in pegno a Berlusconi la maggioranza delle azioni del Torino calcio. Da craxiano a craxiano, tutto in famiglia.

Ecco come Borsano racconterà l’incredibile vicenda ai magistrati torinesi, nell’interrogatorio del 13 gennaio 1994: «Il pegno venne dato perché in quel periodo di tempo il contratto (per la cessione di Lentini al Milan, ndr) non poteva essere concluso secondo la regola della Federazione. Il pegno era una garanzia a che, se non si fosse concluso il contratto, io avrei dovuto restituire il denaro preso in nero. Il denaro mi era stato dato in nero nel marzo del 1992. Ne avevo bisogno urgente, credo per un rientro in banca. Io avevo proposto il pegno sulle azioni della Gima (la piccola holding delle decotte società borsaniane, ndr). Ma Galliani non le volle, non ritenendole garanzie sufficienti. Io feci forti pressioni perché Berlusconi comprasse il Torino calcio. Lo dissi a Galliani e forse anche a Berlusconi». Ma quelli non ne volevano sapere, così si optò per la formula delle azioni in pegno: «Le azioni del Torino calcio, nella misura della maggioranza (non ricordo l’esatta quota, se 51 o 60 per cento) furono depositate in pegno presso un notaio di Milano, scelto dal Galliani. Io mi recai da questo notaio, di cui ora non ricordo il nome. La mancanza di azioni in mano mia è attestata dal mancato deposito delle azioni presso la sede sociale prima di un’assemblea... Dal notaio venne redatta una scrittura (non so se a scriverla fu il notaio, o Galliani, o l’avvocato Cantamessa che era con noi presente). Questa scrittura dava atto del deposito delle azioni. Ma quella scrittura faceva le veci della garanzia reale. Forse, anzi, era proprio una procura a scrivere il pegno sulle azioni. L’episodio avvenne, se ben ricordo, nel marzo 1992. Presenti alla riunione furono Moriondo (un dirigente granata, ndr), Cantamessa e Galliani».

Di questa cessione della maggioranza azionaria del Torino a un’altra società di serie A (il Milan appunto), Borsano dice di aver parlato «con l’avvocato Franzo Grande Stevens » (il celebre civilista molto vicino a casa Agnelli), «con Giampiero Boniperti» (quando gli comunicò che per Lentini si era già accordato con il Milan), e «forse con Moggi». Chissà se Lucianone, forse informato, trovò qualcosa da ridire per quell’incredibile iniziativa scandalosa e delinquenziale del suo presidente, il quale arrivava a consegnare la maggioranza azionaria di una società di serie A a un'altra società di serie A, il Milan, commettendo così un illecito sportivo gravissimo, visto che i due club erano antagonisti nello stesso campionato.

E per alcuni mesi, Berlusconi controllò di fatto il Milan e il Torino, che in teoria avrebbero dovuto essere squadre rivali: autorizzando così ogni possibile sospetto sulla piena regolarità degli scontri diretti e dell’intero campionato (anche se Borsano esclude «che in qualche misura il possesso delle azioni abbia interferito con l’esito delle partite con il Milan da parte del Torino calcio: non esiste patteggiamento sulle partite»).

Nelle pur blande leggi del calcio italiano, c’è l’ovvia norma che fa espresso divieto di possedere quote azionarie, anche di minoranza, di più di una società impegnata nello stesso campionato, prevedendo in tal caso perfino la revoca dello scudetto o la retrocessione d’ufficio. Ma non risulta che Lucianone, "forse" informato, abbia "forse" ostacolato il gravissimo illecito messo in atto dal suo presidente. Né risulta che Moggi abbia obiettato alcunché quando Borsano lo informò – senza "forse" – che il prezzo pagato dal Milan per Lentini era ben superiore a quello dichiarato: non 22 miliardi, ma 10 in più. E cioè: i 5 dell’anticipo di marzo (in nero), più altri 5 alla conclusione del contratto in luglio (sempre in nero). «Di certo Moggi lo sapeva», dichiara infatti l’ex presidente granata ai magistrati, «pur non conoscendo l’esatta entità del nero». Ma Lucianone è un uomo di mondo: evidentemente, per lui anche quell’ "arrotondamento" era ordinaria amministrazione.

Il curriculum di prodezze illecite – a livello sportivo o penale – accertate dai magistrati torinesi a carico di Moggi direttore generale del Torino è impressionante. Lucianone reclutava squillo per "ammorbidire" gli arbitraggi, organizzava una tratta di finti giocatori per coprire fondi neri, ricorreva alle false fatture nell’acquisto di giovani calciatori per occultare altre operazioni illecite, si faceva pagare l’affitto con denaro extracontabile ricavato dalla vendita di biglietti omaggio... E non basta ancora. Nelle agende del ragionier Matta vengono trovati gli appunti sui compensi "in nero" pagati ai giocatori del Torino, denaro consegnato a mano in contanti dal contabile del Toro ai vari calciatori granata, che poi provvedevano a versarlo sui rispettivi libretti al portatore accesi presso la Banca Brignone, dove ricevevano anche gli stipendi ufficiali. "Tutti i calciatori più importanti del Torino", dichiara il Matta, "hanno usufruito di premi non ufficialmente registrati a bilancio". Il denaro proveniva dal famigerato conto "Mundial", gestito dallo stesso Matta con un libretto al portatore sulla Banca Brignone.

Ma non erano solo i calciatori a ricevere dalla società granata denaro "nero". Riceveva denaro occulto anche un caro amico di Lucianone: «Una erogazione riservata», racconta Matta ai magistrati il 6 novembre 1993, «era il colonnello Tronco. Era un amico del Moggi e venne poi assunto con compenso in parte riservato, quale osservatore. Prima era nell’Esercito italiano». Chissà come "osservava" bene i calciatori, l’ex colonnello dell’Esercito amico di Lucianone; chissà quanti campioni avrà segnalato, per giustificare quei compensi in nero... Del resto, Moggi di amici ne ha sempre avuti tanti. Per farli contenti, a Torino, aveva a disposizione un congruo pacchetto di biglietti e abbonamenti omaggio, a seconda dell’importanza dei destinatari. Luciano Faussone, responsabile dal 1978 della biglietteria del Torino, rivela ai magistrati il 23 novembre 1993: «L’assegnazione degli abbonamenti omaggio viene effettuata su richiesta di alcuni dirigenti: il presidente Borsano e il direttore generale Moggi». I nominativi, autorità o semplici amici dei suddetti, «mi pervengono oralmente o con un foglietto scritto. Anche se gli abbonamenti omaggio non possono essere messi in vendita, è prassi che da anni la società venda tali abbonamenti...».

Quisquilie, queste ultime, rispetto ai tanti guai giudiziari collezionati da Lucianone in una vita di duro lavoro. L’oblazione per i giocatori fantasma, che gli ha risparmiato la macchia nera sulla fedina penale, e la pena patteggiata per reati fiscali, vanno ad aggiungersi a due antichi peccatucci. Il 25 febbraio 1977 Moggi rimediò una condanna a 30 mila lire di ammenda dal pretore di Civitavecchia per violazione dei limiti massimi di velocità. Il 10 novembre 1982, la Corte d’appello di Roma lo condannò con sentenza irrevocabile a 4 mesi – condonati – per il reato di omicidio colposo (probabilmente in seguito a un incidente d’auto mortale). Tutti precedenti penali che fanno di Lucianone un pregiudicato a tutti gli effetti, e che potrebbero costargli caro in caso di nuove condanne.