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DAVIDE LIBERO











MOGGI STORY parte 5

 

Tratto da "Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi".

 

IL PADRE, IL FIGLIO E LO SPIRITO SANTO
Il gioco delle tre carte

L’ingaggio-parcheggio di Moggi da parte della Roma, nel luglio 1993, è preceduto da una bufala. Sui giornali, a giugno, si legge che Lucianone è il nuovo direttore generale della Fiorentina. Strano, molto strano: è vero che deve solo parcheggiarsi per un annetto, in attesa di passare alla Juventus; ma la Fiorentina, al termine del campionato 1992-93, è retrocessa in serie B. Eppure sembra proprio vero, dal momento che l’ineffabile ex ferroviere conferma la falsa notizia: «È vero che non c’è ancora la firma, ma una stretta di mano vale più di un contratto... Ho scelto Firenze perché la Fiorentina non vale la B. Con i Cecchi Gori (proprietari della squadra, ndr) abbiamo piena comunità (sic!) di intenti: riporteremo la squadra in serie A». Dopo la Juve, la Lazio, il Napoli, il Torino, ora Lucianone si scopre tifosissimo della Fiorentina, e annuncia che ne sarà il salvatore. Ma nel giro di poche settimane volta gabbana, e passa alla Roma, nonostante la stretta di mano che vale di più di un contratto.

Queste giravolte sono la traduzione pratica delle sinergie e delle flessibilità così come le intende Moggi. Il grande maneggione pallonaro si muove dietro le quinte calcistiche alla maniera pirandelliana: uno-nessuno-centomila, oppure come un esperto del gioco delle tre carte. Qualche tempo prima, per esempio, mentre ufficialmente dirigeva il Torino, aveva brigato per riportare Maradona al Napoli. E a fine agosto cioè un mese dopo essere passato alla Roma verrà sorpreso a trafficare con il suo amico procuratore Riccardo Sogliano per portare l’attaccante Paolo Monelli nella squadra dell’Entella. È sempre così: mentre ufficialmente lavora per qualcuno, Moggi segretamente lavora anche per qualcun altro. E non c’è niente di contraddittorio: infatti, a suo modo coerente, Lucianone al di là delle cariche lavora sempre e solo per se stesso. E non ne fa mistero.

La notizia del ritorno di Moggi alla Roma suscita un vespaio di polemiche. La società giallorossa ha di fatto due padroni, il palazzinaro Pietro Mezzaroma e l’industriale Franco Sensi. Quest’ultimo apprende dell’ingaggio di Moggi deciso da Mezzaroma a cose fatte. Le tensioni fra i due esplodono in guerra aperta: «Mezzaroma non può decidere se io non sono d’accordo», tuona Sensi, «avevamo un patto che non è stato rispettato!». Anche il direttore sportivo romanista, Emiliano Mascetti, è stizzito: «È una scelta che non capisco e che preferisco non commentare: neanch’io ne sapevo niente». Ma cosa fatta capo ha, e Lucianone se la ride: la consulenza romana per meno di un anno gli porta in tasca poco meno di un miliardo. Così lui, generoso e altruista com’è, lancia una campagna per i disoccupati del calcio: «I giocatori disoccupati stanno crescendo, fra poco arriveranno a 500-600... Ma non scandalizziamoci, tutto tornerà nella norma solo quando la crisi economica del Paese finirà: in fondo, il calcio è lo specchio che riflette il problema della disoccupazione sociale». Poche e meditate parole di un ex ferroviere miliardario con aspirazioni da statista...

Il campionato della Roma moggizzata incomincia male. A ottobre Mezzaroma vuole già cacciare l’allenatore Carlo Mazzone. «È tutto in mano a Moggi, che dovrà scegliere un nuovo allenatore e dei rinforzi», scrivono i giornali. Ma l’altro presidente, Sensi, difende l’allenatore, e «diventa pallido solo a sentire il nome di Moggi». Mazzone si arrabbia, non ci sta a fare il capro espiatorio della squadra che va male; allora interviene Lucianone, che sfodera il suo cipiglio del padreterno: «Il nostro allenatore non è in discussione, ma deve stare calmo e soprattutto zitto».

Il 15 ottobre arriva a Roma anche un altro Moggi: il figlio di Lucianone, il ventiduenne Alessandro. La squadra giallorosa non c’entra, Moggi junior approda nella capitale per sostenere degli esami molto particolari: quelli necessari per l’iscrizione all’Albo dei procuratori sportivi. Già, perché il rampante rampollo di papà Luciano sta per entrare anche lui nel mondo del calcio: nonostante la tenera età, farà il manager, cioè il professionista che cura gli affari miliardari dei calciatori. In fila per quello stesso esame ci sono anche avvocati e commercialisti. Ma Moggi junior non si impressiona, e da vero enfant prodige supera la prova di slancio. Poco importa se gli altri esaminandi, invidiosi, commentano: «E te pareva che bocciavano proprio lui!».

Il figlio di Lucianone diplomato procuratore non ha neanche il tempo di fare l’apprendistato: decine di calciatori sono subito pronti ad avvalersi della preziosa assistenza del rampollo del potentissimo padre. Così la ragnatela affaristica della ditta Moggi si allarga ancora di più. Il conflitto di interessi non potrebbe essere più macroscopico: da dirigente di grandi club di serie A (prima la Roma, poi la Juve), Moggi senior tratterà con Moggi junior ingaggi e trasferimenti di giocatori. Mai visto niente del genere nell’intera storia del calcio. A novembre, la guerra intestina tra Mezzaroma e Sensi si risolve con la vittoria del secondo. Il palazzinaro si fa da parte, e Sensi diventa il padrone unico della Roma. «Tempi cupi per il Re del mercato», scrive un giornale, «Moggi, al termine del campionato, dovrà lasciare la Roma. Anche perché gli contestano di aver ceduto Grossi in prestito al Bari per due lire».

Allora Lucianone mette in campo le sue armi migliori, e sulle prime riesce ad ammansire Sensi e a stabilire con lui una qualche intesa. Durerà poco, comunque, anche perché il presidente romanista ignora che Moggi sta solo contando i giorni che lo separano dall’approdo in casa Juve. Le voci del trasloco di Lucianone alla corte degli Agnelli si fanno più insistenti all’inizio del 1994. Al punto che un gruppo di tifosi juventini espone allo stadio Delle Alpi un eloquente striscione anti-Moggi: «No ai granata e ai mercenari senza onore». Così l’ex ferroviere, che è un gran bugiardo, si affretta a dichiarare: «Non ho mai avuto nessun contatto con la Juve. Ho un contratto con la Roma e intendo rispettarlo. Evidentemente a Torino c’è qualcuno che mi vuole male».

Mentre se ne sta in riva al Tevere, Lucianone fa già la spola con Torino. Ma la Juve non c’entra ancora: c’entra la Procura della Repubblica, che gli ha messo gli occhi addosso nell’inchiesta sul malaffare della società granata. Intanto, a Napoli, il pentito di camorra Pietro Pugliese racconta la sua verità del presunto scudetto venduto da Maradona & C. alla camorra. Le rivelazioni del pentito finiscono sui giornali, ma Lucianone cade dalle nuvole: «Nel calcio ci sono cose che si sanno e cose che non si sanno. Io di questa storia non so niente».

Il trasloco di Moggi dalla Roma alla Juventus, nella primavera del 1994, è un altro capolavoro dell’ex ferroviere. Fin dal dicembre 1993, nella veste di consulente giallorosso, Moggi sta trattando l’ingaggio del centrocampista portoghese Paulo Sousa, al quale è interessata anche la Juve. A metà aprile, colpo di scena: il giocatore portoghese firma per la squadra bianconera. La reazione del presidente romanista è velenosa: «O Moggi è un incapace, oppure... Era da dieci giorni che gli avevo detto: vai a Lisbona e firma il contratto per Sousa! O si è fatto fregare, oppure c’è sotto qualcosa...». Altri pettegolezzi riguardano il passaggio di Ciro Ferrara dal Napoli alla Juve, a dispetto del lungo corteggiamento da parte della Roma. Allora Lucianone prende la palla al balzo: attribuisce a Sensi una mancanza di fiducia, e previa sceneggiata di lesa maestà rassegna le dimissioni.

Come è andato davvero il caso Sousa lo racconta da Lisbona il procuratore del giocatore, José Veiga, confermando che Moggi, nel trattare Paulo per la Roma, ha volutamente tirato le cose in lungo favorendo la Juve: «La Roma fu la prima a interessarsi a Sousa. I contatti, che risalgono a dicembre, li ho tenuti con Moggi. Da tre mesi gli dicevo: Chiudi la trattativa, che ci sono altre squadre interessate, la Juve, il Parma. Ma lui mi rispondeva: Aspetta: se domenica prossima battiamo il Lecce, arrivo e firmo... Se domenica prossima battiamo il Cagliari... Se domenica prossima.... Rinviava sempre, al punto che Sousa e io non ne potevamo più. Finché ho telefonato alla Juventus, e abbiamo firmato alle stesse condizioni».

Lucianone, che ha preso due piccioni con una fava (passa alla Juve come previsto portando in dote ai nuovi padroni il fuoriclasse portoghese che ha sottratto alla Roma facendo il doppio gioco), non si scompone: «Non ci vedo niente di scandaloso se altri si sono infilati in un affare che la Roma poteva fare o non fare». Per tentare di salvare le apparenze, entra in scena un amico di Lucianone, Dario Canovi, il procuratore italiano di Sousa, che dichiara: «Io so che lo Sporting Lisbona (la squadra di Sousa, ndr) ha obbligato il giocatore ad andare a Torino. Infatti gli hanno detto: O firmi per la Juve, o resti con noi...». È sempre bello avere degli amici. Più prosaico l’ex calciatore Aldo Agroppi: «Questo Moggi è furbissimo: ho capito che sarebbe andato alla Juve quando i bianconeri hanno comprato Sousa».

Anche gli sviluppi della carriera di Sousa in maglia bianconera la dicono lunga sulla caratura umana e professionale dell’ex ferroviere di Monticiano. Approdato alla Juve insieme a Lucianone, il giocatore portoghese lascia il suo procuratore Canovi e entra nella scuderia del procuratore Moggi junior; poi, un bel giorno, decide di cambiare ancora, e affida la rappresentanza dei propri interessi calcistici a un altro procuratore, Giovanni Branchini. Nel 1996 la Juventus (cioè Moggi senior) si libera di Sousa (che non è più nella scuderia di Moggi junior) vendendolo al Borussia Dortmund. «Sono stato spremuto e buttato via: mi sento tradito... Alla Juve non c’è umanità, contano solo gli affari», dichiarerà il giocatore, precisando: «Certo, se restavo nel giro Moggi, anziché passare al procuratore Branchini, forse la Juve non mi avrebbe trattato in questo modo». Pronta la replica di Lucianone faccia tosta: «Queste dichiarazioni di Sousa dimostrano che abbiamo fatto bene a cederlo».

L’arrivo di Lucianone alla corte di Umberto Agnelli, nella primavera 1994, è un’apoteosi di ipocrisia. Siccome è coinvolto nello scandalo granata delle sexy-hostess per gli arbitri, la società bianconera è in grave imbarazzo: come si fa a nominare direttore generale della Vecchia Signora un personaggio accusato di avere organizzato un giro di squillo per corrompere alcuni arbitri? Come può Casa Agnelli assumere un dirigente sotto inchiesta per favoreggiamento della prostituzione? Oltretutto, il repentino trapianto di un personaggio come Moggi potrebbe provocare una crisi di rigetto da parte della tifoseria juventina.

E allora, avanti con la strategia dell’ipocrisia. Moggi è congelato, resta in freezer per qualche mese. Ufficialmente, non è un dirigente della Juve. In realtà, ne pilota la nuova campagna acquisti da un ufficio nella sede della società, in piazza Crimea, fin dal mese di marzo, quando viene annunciata la prossima partenza di Giampiero Boniperti e Giovanni Trapattoni. Formalmente, a Torino, l’ex ferroviere plurinquisito non risulta; nei fatti, è ben presente e attivo in tutto il suo splendore trafficone. Un clandestino a bordo. «All’inizio è rimasto defilato, come i parenti che non si vogliono far conoscere agli ospiti: da piazza Crimea non è mai partita una riga ai giornali per presentarlo ufficialmente. Gli hanno inventato una carica quasi incomprensibile, procuratore area sportiva, ma per certi personaggi non è mai una questione di etichette» .

Però anche la pazienza di Lucianone ha un limite, così presto comincia a scalpitare per mettere fine a quell’imbarazzante condizione di clandestinità. E lo fa servendosi, ancora una volta, dell’amico Aldo Biscardi: il 18 giugno, in una delle prime puntate del Processo ai Mondiali d’America, direttamente dagli studi di New York. Con il consumato servilismo che lo coglie ogni qual volta nomina Moggi, l’Aldone nazionale si scappella all’entrata in studio di Moggi: «Ecco, arriva qui da noi Luciano Moggi, che è passato alla Juventus!».

Sorriso dell’ospite, compiaciuto per lo scherzetto che sta per giocare alla schizzinosa Casa Agnelli: non ne può più di passare dall’ingresso di servizio, vuole entrare dalla porta principale, e lo fa sapere alla sua maniera. «Moggi è il nuovo organizzatore della Juventus!», urlacchia Biscardi; Lucianone accenna addirittura a un inchino. Ancora Biscardi, ormai prossimo all’orgasmo: «Dino Baggio l’abbiamo appena visto giocare nell’Italia, è un giocatore importante! Adesso che Moggi è alla Juve, se lo terrà ben stretto!».

Lucianone se la ride soddisfatto, missione compiuta. Dalla Juventus arriva una smentita patetica: «Il signor Moggi non collabora con noi nemmeno a livello ufficioso». Nei giorni successivi i giornali pubblicano una fotografia della tribuna d’onore della partita amichevole Livorno-Juventus, che ospita in bella mostra Marcello Lippi (nuovo allenatore della Juve al posto di Trapattoni), seduto a fianco di Moggi, dell’autista-consulente Galletti, e di Andrea Orlandini (osservatore e amico di Lucianone, anche lui ingaggiato dalla società bianconera).

Si parla addirittura del prossimo arrivo alla Juve di Luigi Pavarese (ma almeno questa sciagura, al già glorioso club juventino, verrà risparmiata). In quegli stessi giorni, come se non bastassero le accuse della magistratura, Moggi è nell’occhio del ciclone per lo strascico di un altro scandalo che si è portato su fin da Roma. Franco Sensi, convinto di aver acquistato il difensore Ciro Ferrara dal Napoli, ne ha dato l’annuncio: peccato per lui che il difensore napoletano finisca invece alla Juve al seguito del suo amico Moggi. Il presidente romanista, già beffato da Lucianone nella faccenda Sousa, e adesso mazziato dal medesimo con lo scippo di Ferrara, minaccia fuoco e fiamme, denuncia le scorrettezze patite, chiede l’intervento degli organi competenti contro l’infedele consulente.

Ma la questione finisce lì. Qualche mese più tardi, alla chetichella, Moggi verrà finalmente iscritto nei ruoli della società bianconera: direttore generale. E, di conseguenza, diventerà frequentatore senza veli della tribuna d’onore juventina, dove lo si vedrà dialogare alla pari con i fratelli Agnelli e con tutti gli altri Vip.
Nel 1994, appena entrato nel sancta sanctorum di piazza Crimea, Moggi può contare su un collaboratore in più. Infatti ha appena lanciato il figlio più giovane, Alessandro, che dopo l’esame romano è pronto per il grande salto. Perché? Semplice: Lucianone ha capito che il mercato in cui cominciò a trattare negli anni Sessanta non esiste più, il potere è ormai nelle mani dei club e soprattutto dei procuratori, che gestiscono giocatori quotati decine di miliardi.

In sintesi: tanti miliardi con poca fatica. L’importante è gestire un buon portafoglio di giocatori di qualità, se possibile giovani; percentuali garantite, e sullo sfondo lui, il grande manovratore. Alcuni giocatori della Juventus si affidano subito a Moggi junior: il difensore Mark Iuliano, il portiere Morgan De Sanctis, i centrocampisti Antonio Conte e Alessio Tacchinardi... Così i rinnovi contrattuali, le cessioni, i premi e quant’altro resteranno tutti in famiglia: saranno oggetto di serrate trattative fra Moggi junior (nell’interesse dei giocatori bianconeri) e Moggi senior (nell’interesse della società juventina). Interessi contrastanti eppure convergenti nella premiata ditta Moggi & Moggi, che incasserà da entrambe le parti.

Il connubio affaristico incestuoso di Moggi padre e figlio è uno spettacolo indecente. L’ex attaccante juventino Fabrizio Ravanelli, ceduto a una squadra inglese, sente nostalgia dell’Italia, e magari della Juve? Ecco che il giocatore liquida il suo procuratore Beppe Bonetto e passa nella scuderia di Moggi junior, cioè del figlio del direttore generale della Juve che è anche il padrone del mercato. Il centrocampista bianconero Alessio Tacchinardi nomina suo procuratore Moggi junior, poi esprime il desiderio di lasciare la Juventus passando a un’altra squadra; a quel punto interviene Moggi senior che ordina: «Tacchinardi dalla Juve non si muove!», e infatti il cliente della scuderia di Moggi junior non si muove.

Poi ci sono i giocatori di altre squadre che ambiscono a farsi ingaggiare dalla Juventus diretta da Moggi senior, e per realizzare quel sogno prendono la scorciatoia: nominano loro procuratore Moggi junior è il caso del giocatore del Napoli Fabio Pecchia, e del difensore della Roma Amedeo Carboni. Quella del procuratore, del resto, è una figura ambigua e controversa, che verrà così tratteggiata dal presidente dell’Associazione calciatori Sergio Campana: «Sul conto dei procuratori se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori. Come sindacato siamo stati i primi a protestare, e a chiedere e ottenere un Albo, con tanto di nomi e cognomi... Sbaglia la Federcalcio a non regolamentare questo fenomeno: i procuratori avrebbero l’obbligo di presentare alla Federcalcio l’elenco dei loro assistiti, ma chi se ne frega... Sbagliano le società a fare le vittime dopo averli blanditi e usati. Ma sbagliano soprattutto i giocatori: il procuratore dovrebbe essere colui che fornisce assistenza tecnica per redigere un buon contratto, non colui che trova, o addirittura sceglie, la squadra».

Ma il procuratore Moggi junior e il direttore juventino Moggi senior del sindacalista Campana se ne infischiano: cosa sono questi scrupoli e formalismi, al cospetto di percentuali miliardarie?! Certo, secondo le malelingue Moggi junior sarebbe solo un prestanome di Moggi senior, ma che importa? Ciò che conta è il portafoglio. Nella sola stagione 1997-98, il figlio di Lucianone tutela gli affari miliardari di decine di stelle e stelline pallonare, nelle società più disparate e nei ruoli più diversi. Portieri: Giovanni Cervone (Roma) e Alessandro Cesaretti (Ancona). Difensori: David Balleri (Sampdoria), Juri Cannarsa (Pescara), Amedeo Carboni (Valencia), Francesco Colonnese (Inter), Salvatore Fresi (Inter), Fabio Galante (Inter), David Giubilato (Avezzano), Gianluca Grassadonia (Cagliari), Duccio Innocenti (Lucchese), Stefano Mercuri (Torino), Vittorio Tosto (Salernitana). Centrocampisti: Massimiliano Allegri (Napoli), Raffaele Ametrano (Genoa), Marco Giandebiaggi (Verona), Giuliano Giannichedda (Udinese), Giuseppe Giannini (Lecce), Giovanni Piacentini (Atalanta), Alessio Pirri (Salernitana). Attaccanti: Francesco Totti (Roma), Alfredo Aglietti (Verona), Christian Biancone (Lucchese), Lampros Choutos (Roma), Federico Giampaolo (Genoa), Francesco Marino (Reggina), Roberto Muzzi (Cagliari), Roberto Stellone (Lucchese). Eccetera eccetera.

Logico che papà Lucianone sia orgoglioso dell’intraprendente figliolo: «Fin dal primo giorno ho detto a Alessandro che avrei messo in difficoltà la sua immagine. Ma trovo che, se un ragazzo ha una inclinazione, è giusto che la debba seguire; respirando calcio fin dalla nascita, ed essendoci portato, Alessandro ha deciso di provarci... Io continuo a tormentarlo perché studi, ma non posso negare che mio figlio di pallone ne capisce: ha intuito, vede il talento nascosto in un ragazzino. E se suo padre può insegnargli qualcosa, è la noncuranza verso le insinuazioni delle persone piccole».

Le insinuazioni delle persone piccole cioè il macroscopico conflitto di interessi rappresentato dai due Moggi, sporadicamente denunciato da qualche voce solitaria sono uno scandalo reso possibile dalla tacita connivenza della Federcalcio, il cui presidente al momento, e per puro caso è Luciano Nizzola, l’amicone di Lucianone.

Il legame fra i due lo si è visto risale ai primi anni Ottanta, quando erano insieme alla guida del Torino. «Legame fa pensare a qualcosa di oscuro, e invece tra me è Nizzola è tutto chiaro: c’è una grande amicizia, siamo veri amici, ci stimiamo, abbiamo lavorato assieme», puntualizza Lucianone con garbo andreottiano. E chi ha contribuito in modo decisivo, nell’autunno 1996, a insediare Nizzola al vertice della Federcalcio? Naturalmente Moggi, direttore generale della Juventus. Un’elezione che secondo alcune malelingue Lucianone avrebbe favorito esercitando pressioni sulle varie società «promettendo un giocatore a una, e un favore arbitrale a un’altra», e salutata dall’ex ferroviere con comprensibile entusiasmo: «Nizzola è un uomo di grande esperienza. La sua indipendenza si chiama equità. È la persona giusta alla guida della Federcalcio. Io e lui siamo amici, ma tengo a precisare che non gli ho mai chiesto un favore».

Da quel giorno, sul calcio italiano regna e governa una nuova Santissima Trinità: il Padre Lucianone, il Figlio Alessandro, e lo Spirito santo Nizzola. «Moggi ha approfittato con la scaltrezza che gli è propria di una situazione poco chiara, ha creato una situazione di fatto che viene più o meno accettata da tutti», dice un direttore sportivo che in passato ebbe rapporti conflittuali con lui. Ma lo dice a mezza bocca, dietro la garanzia dell’anonimato: è meglio non esporsi troppo, quando c’è di mezzo Lucianone. Il tandem formato dai due Luciani idealmente ricostituitosi ai massimi livelli del calcio nazionale farà parlare di sé perfino in relazione al commissario tecnico della Nazionale azzurra.

Nel dicembre 1996 Nizzola licenzia Arrigo Sacchi e lo rimpiazza con il più malleabile Cesare Maldini: secondo le solite malelingue, il suggeritore dell’avvicendamento sarebbe stato Lucianone. In vista dei Mondiali di Francia ‘98 «si parla di un tutore» da affiancare all’allenatore. E chi sarebbe questo tutore di Maldini? «Si fa il nome di Luciano Moggi, che è in ottimi rapporti con Nizzola... Moggi sarebbe pronto, la Juve lo concederebbe per due mesi alla Federcalcio. Tuttavia Maldini non può accettare una intrusione così pesante... Moggi inoltre è un dirigente della Juve e si ipotizza che la mossa non sia gradita a tutti gli altri club». Il dirigente federale Walter Mandelli commenta: «Moggi di mestiere compra e vende i giocatori: chi convincerà i giocatori e l’opinione pubblica che dietro alle scelte di Maldini non ci sono gli interessi di Moggi sul mercato? Il sospetto sarebbe di casa». Infatti...

LUCIANONE E LA MAGA

Il 6 settembre 1993 Lucianone è, da alcune settimane, consulente della Roma, avendo lasciato il Torino calcio da sei mesi. Grande è dunque la sorpresa nelle redazioni quando arriva una notizia che riguarda ancora il Moggi granata: un mese prima, sei fra dirigenti e calciatori del Toro (compreso, pare, il neopresidente Goveani) sono stati interrogati come testimoni dalla Guardia di finanza di Torino su mandato della Procura presso la Pretura di Pescara. L’ordine è partito dal sostituto procuratore abruzzese Salvatore Di Paolo, che indaga su un presunto giro di partite truccate da alcuni giocatori e dirigenti del Pescara calcio. I sei interrogatori sono stati piuttosto sbrigativi, con poche domande a fotocopia.

Due, in particolare: «In quali rapporti eravate con Luciano Moggi?», e «Moggi vi ha mai parlato di accordi sottobanco a proposito della partita Torino-Pescara?». Tutti e sei gli interrogati alla seconda domanda rispondono di no, e la cosa finisce lì. Si dice ma mancano le conferme che qualche domanda sull’argomento sia stata rivolta dai finanzieri allo stesso Moggi. Ma appena l’indiscrezione viene raccolta da alcuni giornali, Lucianone provvede a querelare (querele che in seguito verranno ritirate). Ma cosa c’entra lui con quelle storie di calcio marcio nella remota Pescara?

Lo scandalo del Pescara calcio scoppia nel marzo del 1993, in seguito alle rivelazioni di Walter Nerone, un coraggioso giornalista del quotidiano locale. Nerone riceve da una misteriosa fonte la registrazione di una telefonata fra l’ex allenatore del Pescara Giovanni Galeone e una parapsicologa genovese sua amica, Maria Lo Bue, alias Miriam Lebel. La Lebel, molto addentro al mondo del calcio genovese, fa da qualche anno la consulente del Pescara. Percepisce regolari (o quasi) compensi in cambio delle sue prestazioni magiche, specializzata com’è nell’attirare energie positive sulle squadre per cui lavora, assicurando loro ottimi risultati sportivi. Così è diventata la confidente di Galeone e di alcuni giocatori pescaresi. E fra un consulto e l’altro, viene a scoprire che tra i biancazzurri qualcuno gioca a perdere, in combutta con un alto dirigente della società: lei, per discrezione, lo ribattezza il Serpente, ma risulterà poi essere secondo i giudici sportivi il direttore generale della squadra pescarese Pierpaolo Marino.

Ex general manager dell’Avellino e ottimo amico di Moggi, Marino è un dirigente molto promettente e quotato. La telefonata Galeone-Lebel, intercettata non si sa da chi (forse dalla stessa maga, intenzionata a vendicarsi con il Pescara che non le ha ancora pagato le sue preziose prestazioni) e finita nelle mani del giornalista Nerone, viene pubblicata integralmente dal quotidiano locale. È databile ai primi giorni del marzo 1993, forse il 5: sicuramente dopo la partita Torino-Pescara, giocata il 28 febbraio e vinta dai granata per 3-1; e sicuramente prima del turno successivo, Pescara-Udinese 2-2 (7 marzo).

Nel corso della conversazione, la maga dice a Galeone che alcuni suoi giocatori lo tradiscono da almeno un anno: nel penultimo incontro della stagione precedente del campionato di serie B (quando il Pescara di Galeone era già matematicamente promosso in A), questi avrebbero venduto la partita al Taranto, che rischiava di retrocedere in C e aveva un gran bisogno di punti. Costoro avrebbero poi continuato a vendere punti a destra e a manca anche nel successivo campionato, quello di serie A, sentendosi comunque già condannati in partenza a un’immediata retrocessione.

Nelle carte dell’indagine si parla di premi-partita di 30-40 milioni versati ad alcuni giocatori pescaresi anche dopo le sconfitte: e non in assegni, ma in contanti, per non lasciare tracce. Lo scoop del giornale provoca un pandemonio. Si muove la giustizia sportiva, con l’Ufficio indagini della Federcalcio che apre subito un’inchiesta. Si muove anche il pubblico ministero Di Paolo, obbligato a indagare in seguito alle querele per diffamazione sporte dal Pescara calcio (tramite il suo presidente Pietro Scibilia), da Galeone, da Marino e dalla maga contro il malcapitato giornalista Walter Nerone.
Esaminando l’intercettazione e interrogando tutti i protagonisti dello scandalo, il magistrato si convince che le partite del Pescara che puzzano di bruciato sono almeno quattro: non solo Taranto-Pescara della stagione precedente di B, ma anche Udinese-Pescara (5-2), Pescara-Fiorentina (0-2) e Torino-Pescara (3-1) della stagione in corso di serie A. Il magistrato lo dice apertamente, in una conferenza stampa, il 24 maggio 1993. In quell’occasione, rivela anche che sull’inchiesta incombe una cappa di paura e di omertà: «Alcuni indagati si sono resi protagonisti di reticenze e affermazioni inverosimili, in base alle quali qualcuno è andato molto vicino all’arresto».

Il riferimento è alla maga, interrogata per dieci ore e a rischio di arresto per reticenza, la quale ha improvvisamente perso la memoria di fronte alle domande su alcuni personaggi eccellenti. Nella stessa conferenza stampa, Di Paolo aggiunge che «la magistratura deve essere molto più attenta che in passato a quel che accade nel mondo dello sport», e che questo «è il momento di agire, per evitare che si arrivi troppo tardi, come avvenuto per Tangentopoli». Infine lascia intendere che i personaggi coinvolti sono tutt’altro che pesci piccoli: «La Lebel conosce molto bene i dirigenti di mezza serie A». Il ragionamento del magistrato è elementare: per vendere una partita bisogna essere almeno in due, un venditore e un compratore. Se l’incontro Torino-Pescara del 28 febbraio era truccato, chi ha organizzato la combine per conto della società granata?

I sospetti del magistrato si appuntano anche su Moggi, e non solo perché al momento dei fatti era il direttore generale del Torino nonché il mèntore di Marino. Infatti, nella telefonata registrata, la maga pare molto informata sulla carriera di Lucianone. Siamo come si è visto ai primi di marzo, proprio mentre in casa del Torino si mormora che l’arrivo di Goveani al posto di Borsano potrebbe portare al siluramento del direttore sportivo Moggi. La Lebel, parlando con Galeone, avanza pesanti sospetti anche su Torino-Pescara: «Guardi che è in forse anche quella (partita, ndr) di domenica prossima (con l’Udinese, ndr), fra due giorni. Lui (il Serpente, ndr) ha già preso i suoi contatti... Comunque anche domenica scorsa (con il Toro, ndr) poteva benissimo venir fuori un pareggio. Domenica scorsa certamente al cento per cento».

Subito dopo la Lebel si mette a parlare di un dirigente che somiglia tanto a Lucianone: «Guarda, ieri sera avevo una rabbia, una rabbia... Ero proprio arrabbiatissima... prima ho parlato con una certa persona all’una e mezzo, che mi ha detto che un certo direttore si è dimesso. L’ho saputo in anticipo, prima che lo sapessero i giornali. Ma l’hanno fatto dimettere: l’hanno obbligato, han detto qui facciamo uno scandalo, o ti dimetti... Adesso loro si stanno facendo i cavoli loro e...». Interviene Galeone: «Addirittura sembra che lui diventi presidente il prossimo anno... L’ho sentito oggi». E la maga: «Ah, va bene, così farà quel che gli è già successo. Ah... sì, per forza, con tutti i soldi che si prende».

Poco dopo, la maga torna su Torino-Pescara: «Eh... quello di domenica scorsa, per esempio: Sì, però un gol noi lo facciamo, lasciatecelo fare. Perché altrimenti è troppo sporca. Ecco, frasi di questo genere... Lui (forse il Serpente, ndr) mira a guadagnare dei soldi senz’altro. Anzi, a rubare dei soldi, non a guadagnare... perché lui ha detto: Tanto (in serie B, ndr) ci saremmo andati comunque...».

Nell’interrogatorio davanti al magistrato, la parapsicologa secondo indiscrezioni avrebbe parlato fugacemente anche di Moggi. E a Lucianone si sarebbe riferita anche Tiziana Bivi, moglie del calciatore del Pescara Edy, fedelissimo di Galeone nonché suo vicino di casa: la signora Tiziana, secondo alcuni quotidiani, avrebbe inoltre scritto una lunga lettera al pubblico ministero Di Paolo, invitandolo a non occuparsi solo dei dirigenti pescaresi, ma «a interessarsi piuttosto di Luciano Moggi». E il magistrato tenta di approfondire: interroga per ben sette volte il giornalista autore dello scoop, e lo bersaglia di domande su Moggi. «Voleva sapere da me», conferma Nerone, «se Marino e Galeone mi avessero mai parlato di Moggi e di altri manager e dirigenti sportivi di altri club molto in vista nella serie A».

Ma il giornalista, almeno su Lucianone, non ha contributi utili da offrire: riferire le voci di corridoio senza prove gli procurerebbe soltanto denunce per calunnia. Così, in settembre, il magistrato trasmette gli atti relativi alla trasferta torinese del Pescara all’autorità giudiziaria subalpina, per altri accertamenti. Ma nemmeno dagli interrogatori di dirigenti e calciatori granata emerge qualcosa di utile all’inchiesta, che alla fine verrà archiviata. La giustizia sportiva, alle prese con questo scandalo, evita di agitarsi troppo sul fronte della serie A. Si limita a scandagliare l’unica partita di B incriminata, Taranto-Pescara 2-1, e a squalificare alcuni dei protagonisti più coinvolti. Il 9 luglio 1993, a tempo di record, la Commissione disciplinare della Federcalcio accoglie per intero le richieste della Procura federale e sentenzia: 3 anni di inibizione a Pierpaolo Marino per illecito sportivo; 3 punti di penalizzazione al Pescara per responsabilità oggettiva; 2 punti di penalizzazione al Taranto per illecito sportivo presunto; 8 mesi di squalifica a Giovanni Galeone per omessa denuncia; 6 mesi di squalifica ai calciatori pescaresi Andrea Camplone, Rocco Pagano e Ubaldo Righetti per omessa denuncia.

Il 3 agosto, in secondo grado, la Caf (Commissione di appello federale) conferma tutte le condanne. Almeno per quella piccola porzione di scandalo: non ci vuole un gran coraggio nel colpire una società come il Pescara, che conta come il due di picche, e il Taranto, che oltre a militare in serie B ha appena fatto fallimento. Su tutto il resto, invece, viene steso un velo di pietoso silenzio.

Poscritto dello scandalo. Pochi giorni dopo le sue dimissioni dal Torino, ufficializzate il 25 marzo 1993, Lucianone Moggi è ospite d’onore in Tv, al Processo dell’amico Biscardi. Per quella puntata del programma, Biscardi è stata invitata in studio una delegazione della tifoseria pescarese e un paio di dirigenti della società per parlare dello scandalo appena scoppiato. Ma all’ultimo momento Biscardi cambia idea: quella sera, del caso-Pescara si parlerà soltanto per un paio di minuti, di sfuggita, verso la fine della trasmissione. L’indomani, i giornali ironizzano sul voltafaccia, e qualcuno scrive che Lucianone, con l’amico Aldo, è stato categorico: «Se stasera si parla dello scandalo, io mi alzo e me ne vado in diretta». Commento ironico di un giornale abruzzese: «Ieri sera, al Processo, hanno volato molto Aldo...».

Pierpaolo Marino, benché squalificato, secondo gli almanacchi sportivi ha continuato tranquillamente a fare il direttore generale del Pescara (e poi dell’Udinese). Il giornalista Walter Nerone, invece, ha vinto il premio Cronista dell’anno 1994: querelato cinque volte per il suo scoop, è stato assolto cinque volte.

LUCKY LUCIANO E LA VECCHIA SIGNORA
Lo stile Juve in salsa Moggi

Perché la Juventus decide di ingaggiare un personaggio spregiudicato come Moggi? Perché gli Agnelli decidono di gettare alle ortiche il noto stile Juve per avvalersi di un personaggio chiacchieratissimo come l’ex ferroviere di Civitavecchia? La risposta sta nel fatto che la più blasonata squadra italiana da qualche tempo è in ombra, come emarginata dallo strapotere calcistico del Milan berlusconiano, e tagliata fuori dai giochi di mercato monopolizzati dalla coppia Galliani-Moggi. Lucianone è ormai l’incontrastato padrone del mercato calcistico, il supremo Mercante di giocatori, non si muove foglia che lui non voglia. E il solo modo che la società bianconera ha per ritornare in gioco è quello di comprare i servigi di Moggi, come sempre a peso d’oro. Sarcastico è il commento attribuito a Boniperti, costretto a cedere il passo a Lucianone: «Evidentemente io sono un uomo datato: la mia Juve mandava in giro il conte Cavalli d’Olivola...». Decisamente perfido quello attribuito all’Avvocato: «Anche nelle migliori famiglie dell’alta società c’è bisogno dello stalliere».

Se prima le allegre gestioni moggiane avevano coinciso regolarmente con scandali (quasi tutti finiti nelle Procure della Repubblica o nelle aule di tribunale), una volta ammesso alla corte degli Agnelli Lucianone si specializza in gaffe. Ma c’è da capirlo: certi trucchetti troppo scoperti ora non sono più consentiti. Oltretutto, la famiglia Fiat è appena uscita da un brutto quinquennio di inchieste giudiziarie, che per sua fortuna non sono riuscite a varcare il portone d’oro che separa Cesare Romiti (verrà condannato per falso in bilancio) dai fratelli Gianni e Umberto Agnelli (indagati, ma quasi subito prosciolti, per mancanza di elementi diretti di accusa). Ciò che era tollerato al Napoli, o al Toro di Borsano, sarebbe del tutto inammissibile nella Juve di Umberto Agnelli e dei suoi fedelissimi.

I quali, per la verità, ci terrebbero a non sfigurare all’inevitabile confronto con lo stile Juventus inaugurato proprio da Umberto Agnelli (giovanissimo presidente nei primi anni Sessanta), e poi perpetuato dal suo successore Vittore Catella (antico gentiluomo piemontese), e dalla venticinquennale gestione di Giampiero Boniperti. Ma lo stile non è acqua, e se uno non ce l’ha come il coraggio per don Abbondio non se lo può dare. Ora, tutto si può dire del ruspante Lucianone Moggi, dell’arrogante Roberto Bettega e dello scostante Antonio Giraudo (della nuova Juve rispettivamente: direttore generale, direttore sportivo, e amministratore delegato), salvo che siano dotati di stile. Infatti impiegheranno solo poche settimane, per smantellare la signorilità che pervadeva casa Juve da quasi quarant’anni.

Il biglietto da visita del terzetto Moggi-Giraudo-Bettega è la immediata epurazione di tutti i bonipertiani presenti nella sede sociale di piazza Crimea. Pregato dall’Avvocato di rimanere formalmente alla guida del club almeno fino al giugno del 1994, Boniperti ha accettato con stile l’avvicendamento; o meglio, non ha capito ma si è adeguato. E all’indomani dell’ultima giornata di campionato, ha svuotato l’ufficio e ha tolto il disturbo. Negli anni, Boniperti ha portato alla Juve tali e tante professionalità che qualunque amministratore assennato se le terrebbe ben strette.

La troika dei nuovi padroncini del vapore juventino, invece, la pensa diversamente, non vuole bonipertiani fra i piedi. Via tutti, con brutalità dal capoufficio stampa e relazioni esterne Piero Bianco, al medico sociale Pasquale Bergamo, all’ultimo dei magazzinieri. Cacciato in malo modo addirittura il massaggiatore Remino (quello che la Gialappa’s di Mai dire gol ha eletto a personaggio col nomignolo di Tranfolanti). Viene liquidato anche il ragionier Sergio Secco, grande esperto in faccende contabili e regolamentari ma viene poi richiamato d’urgenza con tante scuse quando ci si rende conto che, in piazza Crimea, non è rimasto nessuno in grado di compilare un contratto come si deve... Si salva il vice-medico sociale, Riccardo Agricola, che viene anzi promosso capo dello staff medico al posto di Bergamo.

Il nuovo responsabile delle relazioni esterne è Romy Gai, assunto qualche mese prima da Boniperti con mansioni di semplice addetto-stampa e balzato come un fulmine sul carro dei vincitori. Rimane ovviamente l’avvocato Chiusano, sulla poltrona sempre più onorifica e sempre meno operativa di presidente: un po’ per il suo filo diretto con l’Avvocato e la Fiat, e un po’ perché come si vedrà questa Juve ha un gran bisogno di un buon legale.

Per il resto, pulizia etnica. Via anche Dante Grassi, architetto, una vita passata alla Juve, responsabile del Centro coordinamento club dei tifosi: dopo la sua partenza, anche la politica juventina nei confronti degli ultrà cambierà radicalmente, con casini che saranno oggetto di denunce e inchieste. Il benservito ai vecchi dirigenti è condito da dichiarazioni velenose e strafottenti, nelle quali la nuova dirigenza juventina mira ad accreditarsi come depositaria della Modernità e della Buona Amministrazione, laddove i bonipertiani vengono dipinti come vecchi, ammuffiti e incapaci incapaci soprattutto nel far quadrare i bilanci. La nuova Juventus sì che ci sa fare! Per cominciare, Moggi vende subito Dino Baggio uno dei gioielli della squadra bianconera e della Nazionale per una quindicina di miliardi, al Parma. «Bella forza», commenterà con gli amici Boniperti, «anch’io sarei stato capace di far quadrare i conti così. Se avessero venduto l’altro Baggio, Roberto, avrebbero incassato anche il doppio».

Moggi benché sia ancora un clandestino a bordo cambia stile come la Juve. Anche lui in peggio (ma i punti di partenza erano piuttosto distanti). Perde quei tratti umani che lo rendevano simpatico, quel suo essere caciarone, ruspante e provincialotto: il contagio di Bettega e Giraudo gli è fatale, e assume ben presto anche lui un piglio arrogante e supponente, sempre più compreso nella parte di padre-padrone-padrino di una società intoccabile che rende intoccabile anche lui (così, almeno, spera). E sempre meno attento alla dote fondamentale di ogni uomo di potere: la discrezione, la dissimulazione, il saper stare dietro le quinte.

Il Lucianone juventino, appena liberato dalla clandestinità iniziale, diventerà un inguaribile iperpresenzialista, un esternatore infaticabile, un ospite fisso dei salotti televisivi che contano (e anche di quelli che non contano). A tutta prima, Moggi e Giraudo vengono accolti dalla tifoseria con cori di insulti e striscioni di dissenso: il pubblico bianconero non perdona loro la notoria fede torinista , visto che in tribuna li si ricorda ancora ai tempi del Torino di Borsano tifare sfegatati insieme, con al collo tanto di sciarpa granata, in ogni derby contro l’odiata Juve. Ma quelle contestazioni, che punteggiano le ultime sei-sette partite del campionato 1993- 94, vengono subito messe a tacere. Con quale politica, lo si vedrà in dettaglio più avanti: quel che è certo è che l’ostracismo imposto da Boniperti contro gli ultrà più facinorosi e scalmanati viene improvvisamente a cadere.

La nuova Juve torna a vendergli i biglietti delle trasferte, e secondo alcuni bene informati addirittura a regalarglieli. Biglietti che gli ultrà rivendono tramite bagarinaggio a prezzo intero o anche maggiorato. Un episodio, ripreso da alcuni giornali, rende bene il senso della svolta. Nel finale del campionato 1993-94, un gruppo di ultrà del clan Drughi (quelli che dirigono il tifo nella Curva Scirea) aggredisce il difensore juventino Andrea Fortunato, lo insulta, lo accusa di scarso rendimento, gli tira addosso uova e pomodori. Dal gruppo si stacca un facinoroso che allunga chi dice un pugno, chi qualche ceffone, al giocatore. Fortunato è già malato di leucemia, il terribile male che lo porterà alla morte (nell’aprile 1995), ma nessuno lo sa: non lui, non i tifosi, non i dirigenti. Pochi mesi dopo, all’inizio del nuovo campionato, lo schiaffeggiatore-picchiatore verrà notato, insieme ad alcuni compari, sull’aereo ufficiale della squadra bianconera, dove ha ottenuto di viaggiare gratis per le trasferte insieme ai giocatori e ai dirigenti nella sua nuova veste di guardaspalle autorizzato dalla società.

Il 13 agosto 1995 la Juventus decide di rendere omaggio alla memoria di Fortunato (deceduto quattro mesi prima) giocando con Napoli e Salernitana un torneo triangolare di beneficenza, dedicato al defunto giocatore allo stadio Arechi di Salerno. L’incasso decidono gli organizzatori sarà devoluto al Centro trapianti contro la leucemia che sta sorgendo a Perugia. I tifosi juventini e non, richiamati da quella nobile iniziativa a scopo benefico, accorrono in massa. Trentacinquemila spettatori. L’incasso è ricco: 770 milioni di lire per i biglietti venduti, altri 300 milioni per i diritti televisivi (ceduti alla Fininvest). Ma alla spartizione della somma, quel denaro si perde in mille rivoli. La Juve rivendica i diritti televisivi, che fanno parte del contratto di vendita di Roberto Baggio al Milan. E in più si scopre che Bettega, in cambio dell’adesione della squadra juventina alla benefica iniziativa, ha preteso 200 milioni a titolo d’ingaggio. A ciò si aggiungono altri 200 milioni di spese varie organizzative. Risultato: al Centro trapianti contro la leucemia di Perugia, alla fine, arrivano meno di 400 milioni.

Non si è mai vista al mondo la beneficenza a pagamento, e qualche giornale lo fa notare e polemizza. «Ha fatto tutto Bottega», se ne lava le mani Umberto Agnelli, che però puntualizza: «Comunque qualcosa a Salerno abbiamo lasciato». E Bettega arriva a dirsi «amareggiato per le polemiche». Lucianone, invece, fa finta di niente.

Il rinomato marchio Moggi impronta di sé il defunto stile della Juventus come una vernice coprente. A metà dicembre 1994 la Juve è in crisi. Gioca male, non riesce a vincere. E con chi se la prende Lucianone? Con gli arbitri, ovviamente, a futura memoria. Il pretestuoso bersaglio è il fischietto abruzzese Rodomonti, reo di una svista a danno dei bianconeri nell’incontro con il Genoa (peraltro giocato malissimo dagli juventini). Il Moggi bianconero fa subito intendere chi comanda nel calcio italiano: «Rodomonti era in area, che cos’abbia visto non si sa! Ditemi voi se non è un’ingiustizia! Ma ci faremo sentire, non possiamo tollerare che si ripetano situazioni simili a nostro danno! Domenica sera ho telefonato a Casarin (il designatore degli arbitri, ndr): mi ha risposto che non aveva ancora visto le immagini e quindi non poteva prendere posizione». La prenderà, la posizione, Casarin: vietando a Rodomonti di arbitrare la Juve per ben tre anni.

L’8 luglio 1995 l’Ufficio istruttorio dell’Autorità antitrust apre un’inchiesta sull’accordo stipulato tra la Juve moggiana e il Milan berlusconiano per «iniziative comuni nel campo commerciale e del marketing», comprese anche operazioni di promozione sui mercati orientali e di commercializzazione dei diritti televisivi per le partite amichevoli. L’Antitrust investita della vicenda da Inter, Roma e Torino, nonostante lo scontato parere pro-Juve di Nizzola sospetta che i due club detengano sul mercato calcistico una posizione dominante, violando il principio di libera concorrenza. «Non c’è niente da temere, siamo tranquillissimi», proclama Lucianone. Infatti ha ragione: di quell’inchiesta non si sentirà mai più parlare.
Nella stessa estate del 1995 la società bianconera si distingue per un’altra bella prodezza nei confronti del suo giocatore-simbolo, scaricato anche lui come un ferrovecchio: Roberto Baggio. Per i soliti motivi di bilancio (la Juventus è ricca sfondata, ma piuttosto taccagna), Lucianone decide di vendere il fuoriclasse per un pacco di miliardi. Se ne parla da marzo, ma la Juve ha sempre smentito piccata. Ovviamente è tutto vero: Moggi ha promesso Baggio all’Inter di Moratti, ma col suo piglio da padrone delle ferriere si è ben guardato dal chiedere al giocatore se fosse d’accordo, se avesse niente in contrario, se per caso preferisse qualche altra destinazione.

Quando la notizia della sua cessione all’Inter trapela sui giornali, Baggio si adombra e chiede spiegazioni. Lucianone smentisce e organizza addirittura una conferenza stampa allo stadio, dove il fuoriclasse viene accolto da un gruppo di ultrà scalmanati che lo contestano come se fosse lui a voler tradire i colori bianconeri. Finché, concluso il campionato, Moggi notifica a Baggio che verrà ceduto all’Inter. Il campione rifiuta per orgoglio e, dopo un lungo e umiliante braccio di ferro, passerà al Milan.

A fine ottobre 1995, altra gaffe moggiana a strisce bianconere: per la trasferta di coppa a Glasgow, Lucianone non si perita di invitare come graditi ospiti sull’aereo della Juventus addirittura quindici procuratori di calciatori amici suoi, per un bel viaggetto tutto spesato. «Pubbliche relazioni», spiega lui ai giornalisti esterrefatti. Qualcuno ricorda le processioni di socialisti, portaborse, sicofanti e fidanzate sull’aereo del presidente del Consiglio Craxi in Cina, negli anni d’oro della Prima repubblica. Il 1996 juventino comincia alla grande. Il 7 gennaio, a Bergamo, l’arbitro Bolognino nega un rigore all’Atalanta, poi ne concede uno alla Juventus, che così vince la partita per 1 a 0.

I tifosi atalantini si scatenano: Moggi e Bettega, presi a ombrellate, riescono a lasciare lo stadio scortati dalla polizia. In primavera, altre figuracce bianconere. Al teatro Regio di Torino è in programma un concerto di Luciano Pavarotti, grande tifoso bianconero; un atteso evento mondano-musicale, tutti i posti esauriti da mesi. La Juventus chiede ai responsabili del teatro di riservare alcuni palchi per dirigenti e giocatori; la richiesta è tardiva, ma trattandosi della Juve gli organizzatori fanno i salti mortali e alla fine i palchi richiesti saltano fuori.

Peccato che la sera dello spettacolo quei palchi rimangano deserti: dirigenti e calciatori juventini se ne sono dimenticati, oppure avevano trovato di meglio da fare. A fine aprile, per zittire le voci di una possibile cessione del goleador juventino Fabrizio Ravanelli, Moggi è categorico: «Ravanelli è incedibile. So che è molto richiesto, ma noi non siamo così ingenui da privarci di un attaccante che sta nella Nazionale». Alla milionesima balla di Lucianone finisce per crederci perfino l’Avvocato, che dichiara: «Non mi risulta che Ravanelli sia in vendita. A meno che Moggi non faccia tutto per conto suo senza dirci niente...». È proprio così: due mesi dopo, infatti, Lucianone vende Ravanelli alla società inglese del Middlesborough. E fa tutto per conto suo senza dirci niente forse perché il procuratore di Ravanelli si chiama Alessandro Moggi...

Anno nuovo, perla nuova. Nella primavera del 1997 è in programma, nella tenuta dei Roveri al parco della Mandria (dove risiede Umberto Agnelli), la sontuosa cerimonia inaugurale dei festeggiamenti targati Juvecentus, che costelleranno tutto il 1998 per celebrare il centenario della fondazione della Juventus. Davanti alla stampa di tutta Europa, sono schierati dirigenti, calciatori di ieri e di oggi, vip e uomini di cultura e di spettacolo accomunati dalla fede juventina. All’appello ne manca soltanto uno: Giampiero Boniperti, cioè colui che da giocatore e da presidente ha vinto il maggior numero di trofei, colui che da mezzo secolo è sinonimo di Juve, e che dopo l’uscita di scena è stato nominato presidente onorario insieme ai due fratelli Agnelli (il 10 maggio 1994 Boniperti è stato anche eletto europarlamentare come indipendente nelle liste di Forza Italia).

L’assenza è così clamorosa che viene subito notata da tutti i presenti. Qualche giornalista chiede spiegazioni. Giraudo farfuglia una scusa: «Boniperti non è a Torino, è a Strasburgo, è impegnato al Parlamento europeo... Fosse stato qui, l’avremmo invitato». In realtà, il presidente onorario della Juve è a Torino: non è presente alla festa per la semplice ragione che nessuno ha ritenuto di invitarlo o meglio, qualcuno ha deciso di non invitarlo. Ma c’è dell’altro. Nella videocassetta proiettata durante la manifestazione, con i filmati dei grandi successi e dei campioni bianconeri, il periodo bonipertiano (che è anche il più florido) viene ridotto a poche e fugaci sequenze, oscurate dallo spazio smodato riservato alla Juve di Moggi-Giraudo-Bettega. L’Avvocato, questa volta, si infuria per davvero. E si indispettisce di nuovo quando apprende che la nuova dirigenza ha deciso di espellere Boniperti dalla tribuna vip, inviandogli provocatoriamente una misera tessera per il secondo anello dello stadio. Il nuovo stile Juve improntato da Lucianone sa arrivare alla pura volgarità: l’anno dopo niente più tessera omaggio per il presidente onorario Boniperti. Il quale peraltro, essendo un signore, allo stadio della Juve moggiana ha deciso di non mettere più piede. Pochi giorni dopo, nello stesso impianto Delle Alpi, si inaugura Juvecentus con una serata di sfilate di moda e partitelle fra vecchie glorie: la fiera del kitsch e del pacchiano. Accesso a pagamento, si capisce. La vedova Scirea viene chiamata in campo per ricordare la figura di quel grande campione che fu suo marito (scomparso anni prima in un tragico incidente stradale); mentre la signora parla al microfono, sul maxischermo dello stadio appare il viso di Gaetano Scirea accostato all’ultimo modello di una nota marca di orologi... Stile Moggi, stile Juventus.


Benché abbia intascato due scudetti in tre anni, la Juve della triade Giraudo-Moggi-Bettega non suscita alcun entusiasmo da parte dell’Avvocato, che infatti, a metà maggio, proclama Boniperti "juventino del secolo". Allora la troika di piazza Crimea si incazza: Bettega fa il broncio, e Giraudo minaccia sottovoce le dimissioni. Per Lucianone bastano le voci – subito nate come per incanto – che lo vogliono in procinto di trasferirsi alla Lazio. Poveretti, c’è da capirli: non solo devono combattere per esorcizzare il fantasma di Boniperti, ma devono lottare contro l’ombra incalzante di Michel Platini, il principesco ex fuoriclasse juventino al quale la Real Casa vorrebbe affidare in futuro la povera Juventus, per farla tornare a essere la Vecchia Signora che la trimurti Giraudo-Moggi-Bettega ha ridotto a zitella di facili costumi.

Il 28 maggio 1997 la Juve, che ha appena vinto lo scudetto, perde malamente la finale di Coppa dei campioni (la seconda su tre disputate) contro il modesto Borussia Dortmund, squadra infarcita di ex giocatori juventini che la società bianconera aveva scaricato come saldi di fine stagione (Sousa, Kohler, Moeller, Júlio César e Reuter). La sconfitta è più che meritata (nonostante un paio di decisioni discutibili dell’arbitro ungherese Sandor Puhl). Così, nel dopopartita, la dirigenza juventina può mostrare anche all’estero di quale pasta è fatta quanto a stile e sportività. Ecco Bettega, in mondovisione: «Siamo stati superiori al Borussia, ma l’arbitro Puhl non ha avuto il coraggio di darci il rigore, certe sue decisioni hanno pesato in modo evidente sul risultato. Abbiamo perso contro una Federazione (quella tedesca, ndr) forte, troppo forte, più potente della nostra».

Geniale: è come ammettere implicitamente che tutti i precedenti successi internazionali della Juventus erano dovuti al fatto che la Federazione italiana era più potente delle altre. Anche Moggi dice la sua: «L’arbitro? Peggio di così si muore»; poi si scaglia contro un giocatore del Borussia, l’ex juventino Paulo Sousa, che aveva criticato il trattamento "umano" ricevuto dalla Juventus moggiana: «Le sue dichiarazioni dimostrano che abbiamo fatto bene a cederlo...». L’Avvocato, stavolta, esce allo scoperto e appioppa ai suoi comici dirigenti un sonoro ceffone: definisce le loro parole «sciocchezze » precisando: «Sappiamo bene come si vince. Ora dobbiamo imparare anche a perdere».

Non passa un mese, e la Juve diretta da Lucianone trascina Agnelli e la società bianconera in un’altra epica figuraccia. Da settimane si vocifera della imminente cessione di un altro gioiello bianconero: Christian Vieri, il centravanti che in una sola stagione è salito alla ribalta del campionato, della Coppa campioni e della Nazionale. Ma Bettega ha giurato ai tifosi: «Vieri è forte e importante, per questo ce lo teniamo, anche se piace a tante società: ci serve per rivincere lo scudetto». Il 30 giugno l’Avvocato telefona a Boniperti per chiedergli un parere sul centravanti. «Vieri ha un grande futuro, io me lo sarei tenuto ben stretto», gli dice il presidente onorario. E il presidente monetario: «Che intende dire, Giampiero?». Boniperti: «Che Moggi lo ha già venduto all’Atletico Madrid». Agnelli: «Non mi risulta». Boniperti: «Come no – è tutto deciso dal mese di aprile». Agnelli: «Giampiero, lei non è informato, a me non risulta... comunque faccio una verifica». L’Avvocato chiama uno dei telefoni cellulari di Moggi e chiede conferma: Lucianone cade dalle nuvole e nega tutto. Così, alla domanda dei giornalisti se la Juventus voglia cedere Vieri all’Atletico Madrid per 35 miliardi, Gianni Agnelli risponde perentorio: «Ho chiamato Moggi... Mi ha detto che Vieri non è sul mercato, che non è una questione di cifre». Interpellato dai cronisti sportivi, Lucianone conferma: «Mi pare che Agnelli abbia già detto tutto, io potrei soltanto ripetermi. Ogni cosa è chiara».

Due giorni dopo, il 2 luglio 1997, con un comunicato di quattro righe, la Juventus annuncia la cessione di Vieri all’Atletico Madrid per 35 miliardi. Il 13 dicembre 1997 muore, dopo mesi di lotta contro una grave malattia, Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, erede designato al trono della Fiat e grande tifoso juventino. Era presidente della Piaggio di Pontedera, e lì le maestranze vorrebbero organizzare una partita amichevole della Juve contro la squadra locale, che milita nelle serie inferiori, per ricordare il giovane e benvoluto padroncino. La risposta della Juve è perentoria: «Abbiamo troppi impegni. Spiacenti, ma non è possibile». L’operazione antipatia prosegue.

Ai primi di ottobre 1997 la Juve è a un passo dall’eliminazione in Champions League (se la caverà con un fortunoso ripescaggio). La reazione della dirigenza bianconera è un bel silenzio stampa: perché la colpa degli insuccessi juventini – secondo Moggi & C. – è dei giornalisti che li raccontano. Ce n’è anzi qualcuno, di questi giornalisti, che si allarga un po’ troppo: per esempio Maurizio Crosetti di "Repubblica", che si è permesso una battuta di spirito irriverente sulla prematura "dipartita" della grande Juve, accostandola per l’occasione a Lady D («Non è il caso di chiedere a Elton John di comporre il nuovo inno bianconero», ha ironizzato il giornalista). L’indomani la Juve, impegnata in trasferta di coppa, è costretta dalle norme Uefa a rompere il silenzio stampa che dura da qualche settimana, e a incontrare i giornalisti che la seguono in tutta Europa. Parla Lippi. Ma quando Crosetti si avvicina alla sala stampa, un addetto della Juventus gli fa presente che può anche tornarsene in albergo: i giocatori e l’allenatore hanno l’ordine di non rispondere alle sue domande, né oggi né domani; se proprio insiste, può starsene seduto in sala stampa ad ascoltare le domande dei colleghi, ma in religioso silenzio. Chi ha dato un ordine del genere? Non si sa, ma dato il livello è facile immaginarlo.

A metà marzo 1998 la Lazio elimina la Juventus dalla Coppa Italia. Lippi (che due mesi dopo s’indignerà per le lamentele dell’Inter contro i continui favori arbitrali alla Juve) protesta fragorosamente contro l’arbitro Pellegrino perché – dice – avrebbe scippato la vittoria alla sua squadra. Due giorni dopo interviene Lucianone, e lo show è assicurato. Il direttore generale è in gran forma: dice che la Juventus è «sola e attaccata da tutti», che è vittima di un isolamento doloso finalizzato a distruggerla, mentre «le squadre romane hanno il privilegio di sentirsi protette».

Ovviamente non si riferisce alla Roma e alla Lazio da lui dirette anni addietro, ma a quelle attuali. E da chi sarebbero protette? Lucianone risponde alla sua maniera un po’ mafiosa: «I messaggi che ho mandato sono arrivati agli indirizzi giusti». Quali messaggi? A quali indirizzi? E perché "giusti"? Lo si capirà nel prosieguo del campionato, quando la Juventus vincerà lo scudetto su una carrozza d’oro trainata da un nugolo di premurose e servizievoli giacchette nere. Ma, al momento, si ride di gusto: il teorema moggiano secondo il quale il club più potente del calcio italiano sarebbe «una piccola, misera scialuppa in balìa di poteri ostili, sola contro tutti, senza appoggi, senza quelle protezioni accordate invece alle squadre romane» è – come scrive Giorgio Tosatti sul "Corriere della Sera" –«delirante... esilarante... roba da bambini dell’asilo». Ma Lucianone, nel corso della sua lunga esperienza napoletana, ha digerito alla perfezione uno dei motti partenopei: "chiagni e fotti", piangi e fotti.

All’ennesimo favoritismo arbitrale accordato alla Juve, l’8 febbraio 1998, nella partita contro la Roma (3-1 per i bianconeri, rigore negato ai giallorossi per un evidente fallo di Deschamps), "Il Messaggero" pubblica alcuni articoli di Roberto Renga molto critici sui continui "errori" che stanno falsando la regolarità del campionato. Renga decide poi di sollevare – finalmente – il macroscopico, osceno e scandaloso conflitto di interessi di Moggi junior, «procuratore di ottanta giocatori, sparsi in vari club, anche in quelli che la domenica vanno ad affrontare la Juventus di Moggi (senior)».

La reazione della società bianconera è una mirabile sintesi di irosa tracotanza moggiana-giraudiano-betteghiana: una citazione in Tribunale, con richiesta di risarcimento danni per 10 miliardi. La notizia, in esclusiva, la anticipa lunedì 16 marzo il "Processo di Biscardi": all’amicone Aldo "qualcuno" ha passato il testo della citazione giudiziaria firmata dall’augusto avvocato Vittorio Chiusano in persona. Il quale, nel ricorso, spiega che la Juventus «ha in progetto di emettere azioni quotate in Borsa», e dunque gli articoli del "Messaggero" hanno «arrecato ingiustamente danni rilevanti, patrimoniali e non. È naturale che il mercato borsistico londinese che potrebbe accogliere l’emissione e la quotazione delle azioni Juventus ne penalizzi il valore se si mette in dubbio che i risultati – e quindi gli incassi – dipendano da illeciti più che dai meriti sportivi e che è possibile o probabile un accertamento di tali illeciti, addirittura in sede penale, di questi ultimi, con ovvie conseguenze a carico della Juventus. È questo appunto anche il parere di importanti banche d’affari esperte nell’assistenza per le quotazioni e i collocamenti in Borsa».

Cesare Romiti – ancora per poco presidente della Fiat – telefona subito al direttore del "Messaggero", Pietro Calabrese, promettendo che qualche milione lo metterà lui, di tasca sua, per riparare almeno parzialmente alla ennesima cialtronata della Juve moggiana. Poi, a fine aprile, con una lettera a "Panorama", Romiti ricorda di avere molto amato la Juventus degli anni Settanta e Ottanta, quando lui guidava la Fiat tra i marosi di tante crisi; la Juve di Boniperti e Trapattoni, insomma, che faceva capo alla Fiat di Gianni Agnelli e Romiti e che non era ancora caduta nelle grinfie dell’Ifi di Umberto Agnelli; quella Juve che «oggi non c’è più» e della quale mantiene un ottimo ricordo, mentre «altri invece mi sembra che non lo facciano»; Romiti conclude velenoso: «Della Juve di oggi provo molta ammirazione per quei grandi professionisti che sono Lippi e i suoi giocatori: ma qui finisce la mia ammirazione» – Lucianone & C. sono serviti.

Onore al merito, l’ex ferroviere fa proprio di tutto per trasformare la Vecchia Signora in una sguaiata cafona, e alla fine ci riesce. Ne è consapevole perfino il quotidiano di casa Agnelli, "La Stampa", che del direttore generale juventino scrive: «Si racconta, alla Juve, una storiella illuminante. C’erano da scegliere le scarpe della nuova divisa e Moggi propendeva per un modello, gli altri dirigenti per l’altro. Ma al momento di definire si accorsero che il fornitore aveva già mandato in produzione la scarpa preferita da Moggi. "Perché so’ democratico ma me piace che se faccia come dico io", ride Lucianone, che se lo cogli col sorcio in bocca non s’irrigidisce, lascia fare. Ha imparato che non c’è tempesta che non finisca in bonaccia, e lui è maestro nell’aspettare che si calmino le acque per fare a modo suo. Così è diventato un padrone del calcio. Lui dirige il mercato della Juve e mette le mani su quello dei concorrenti perfino in Europa con un consiglio, un aiuto, un veto: un giornale inglese ha scritto che se McManaman non firma con il Liverpool è una manovra di Moggi. Forse non è vero, ma ci si potrebbe credere».

Convinto che i giocatori bianconeri debbano parlare «del sole e della pioggia» purché «non mi creino casini», Moggi prepara una specie di galateo-codice d’onore al quale si devono attenere i giocatori juventini in campo e fuori dal campo; poi lo consegna al capitano della squadra, Antonio Conte, dicendogli: «Fate i bravi cristiani». E in una intervista precisa: «Non sono una verginella e neanche un angioletto... ma nell’ambiente del calcio bisogna essere svegli, dormire poco la notte». Il suo ufficio di direttore generale juventino è «come una sala d’aspetto di una stazione... Lucianone ascolta tutti. Da vent’anni. Un clientelismo da Prima repubblica che pensavamo si potesse interrompere (dopo) le inchieste della Procura torinese, invece Moggi ha retto all’urto».

Lucianone dice che «in giro c’è una cattiveria bestiale e io ne ho subita tanta»; oppure che «gli amici sono importanti: io faccio un favore a loro e loro lo ricambiano dandomi un giocatore che finirebbe ad altri». Come prima e meglio di prima, racconta barzellette pecorecce, frequenta gli ippodromi, fuma ammorbanti sigari, ostenta braccialetti d’oro a catena con medagliette... Ma il meglio di sé Lucianone continua a darlo quando fa il mercante di calciatori. Ne è un esempio il suo tentativo di portare alla Juve il giocatore Luís Fígo dello Sporting Lisbona, al quale si interessa anche il Parma. La trattativa è complessa e problematica, e alla fine il campioncino firma due contratti: uno per ciascuna società. Allora l’ex ferroviere sbotta: «Una cosa è sicura: se Fígo non giocherà nella Juve, non si muoverà dal Portogallo. Altre possibilità non ce ne sono». Parola di Lucky Luciano.