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REGGIO EMILIA, IL CORTEO, LO STADIO, DUE DIVERSI PUNTI DI VISTA

 

FONTE: Sport People

 

Questa storia, come ogni storia d’altronde, ha due diversi punti di vista e parte anche da così lontano che è difficile farne una sintesi, ma forse è necessario per capirne il retroterra in cui la manifestazione di sabato 24 è nata e si è poi mossa. Seppur l’oggetto delle più aspre contestazioni nel corteo di Reggio Emilia sia stato Squinzi, il proprietario della Mapei e del Sassuolo Calcio, per sineddoche finite anch’esse nel calderone delle invettive, bisogna risalire ancora più indietro nella corrente degli eventi. Paradossalmente a quando tutto sembrava così bello e idilliaco che nessuno poteva neanche lontanamente immaginare l’iceberg contro cui ci si sarebbe schiantati. Erano gli anni aurei della Regia che raggiunse la Serie A, e stante l’inadeguatezza strutturale e logistica del vecchio “Mirabello” ad ospitare la massima serie, la società di allora avviò la costruzione del primissimo stadio di proprietà in Italia. Parecchio prima dello “Juventus Stadium”, anche se più di qualcuno lo ha “dimenticato” nello slancio di piaggeria con cui ha salutato il varo dell’impianto torinese.
Lo stadio vide la luce nella seconda stagione di Serie A (esordio, guarda il caso, proprio contro la Juventus), una stagione con molte meno luci e più ombre rispetto alla prima, conclusasi con la retrocessione in cadetteria. All’epoca venne assunto il nome di Stadio “Giglio”, ad appannaggio dell’industria lattiero casearia già sponsor di maglia che siglò anche il contratto per i cosiddetti “naming rights”, i diritti di denominazione.
L’anno successivo un giovanissimo Carletto Ancelotti, alla sua prima esperienza vera da allenatore, riportò la Reggiana in Serie A, ma era solo il colpo di coda di un animale morente. Per quanto davvero avveniristico per l’epoca, l’investimento per la costruzione dello stadio si rivelò passo troppo lungo per le gambe degli emiliani, che imboccarono una rovinosa parabola discendente culminata poi con il fallimento del 2005. Nelle intenzioni dell’allora amministratore delegato Franco Dal Cin, più che le varie particolarità accessorie del “Giglio” quali panchine riscaldate, tornelli, telecamere a circuito chiuso, palchi privati con servizio bar e altre scempiaggini di lusso, la vera forza doveva risiedere in un correlato centro commerciale che avrebbe portato ricavi e forza al club. Peccato solo che per via di un contenzioso con l’amministrazione comunale, il centro commerciale arrivò solo quasi dieci anni dopo, a beneficio di ben altri soggetti e quando ormai la sorte della Reggiana era già abbondantemente segnata.
Questa storia, dicevamo in apertura, ha due diversi punti di vista, quello legittimo e quello morale. Squinzi è il padrone dello stadio, su questo non c’è molto da discutere e la nuova denominazione in “Mapei Stadium” e lì a ricordare a chiunque di chi sia il castello. Le prese dei castelli però hanno sempre storie rocambolesche alle spalle e quella del “Città del Tricolore” non è da meno: il già presidente di Confindustria lo “espugnò” con un’offerta faranoica di 3,75 milioni di euro. Dove “faranoica” è ovviamente un eufemismo: all’asta, l’offerta di Giorgio Squinzi superò di 100 mila euro quella della Reggiana e per una cifra davvero irrisoria, specie se si pensa che all’epoca servirono oltre 26 miliardi delle vecchie lire per costruirlo, si accaparrò l’uso dello stadio fino al 2052. Ma il rapporto di forze fra la cordata reggiana di Barilli e Squinzi avrebbe comunque e in ogni caso visto prevalere quest’ultimo, specie in virtù del fatto che – come ancora oggi ripetono i tifosi – la politica locale si stese a zerbino per favorire Squinzi anziché appoggiare in qualsiasi modo le ragioni della squadra locale. La stessa politica locale che anziché prendere possesso della struttura com’era nelle sue facoltà, decise di metterla all’incanto e consegnarla alla Mapei, senza nemmeno considerare i prevedibili sviluppo futuri che oggi hanno messo in un angolo la Regia.
Se Squinzi è dunque il padrone legittimo, c’è anche il punto di vista di chi si ritiene il proprietario morale dello stadio e non solo perché lo stadio è ubicato e serve il territorio di Reggio Emilia e non certo quello di Sassuolo. I tifosi della Regia infatti, furono tra i primi e principali finanziatori della costruzione dello stadio, che sostennero sottoscrivendo 1.026 abbonamenti pluriennali raccogliendo così ben 5 miliardi di lire, quasi un quinto del suo costo complessivo.
Ma non è tanto per questi inascoltati diritti di primogenitura ideale che cova la rabbia fra i tifosi granata, non è forse nemmeno per Squinzi in sé, che con l’arrogante potere del denaro compra quel che vuole. Men che meno è una questione di campanile contro Sassuolo che, senza offesa alcuna per i suoi pochi e vecchi tifosi (che fra l’altro hanno smesso di seguire i neroverdi in disaccordo con le politiche societarie), non è altro che una traslazione all’italiana della logica delle franchigie nord-americane, dove l’identità di Sassuolo città o squadra calcistica valgono come il due di spade alla briscola quando comanda coppe. D’altronde non può esserci legame di alcun tipo, né identitario, né culturale, sportivo o sentimentale con una squadra che, pur portando un nome di una data città, poi in quella città non ci ha mai giocato.
Quello che indigna di più la gente di Reggio ce lo raccontano i primi ragazzi con cui ci fermiamo a far due chiacchiere appena arriviamo davanti al vecchio “Mirabello”, lo stadio dove tutto ebbe inizio e che rappresenta simbolicamente il luogo perfetto da cui muovere i primi passi di questa marcia di rabbia e di orgoglio. Fa appunto rabbia che a solo un mese dalla messa all’asta dello stadio, la giunta cittadina cancellò dalla convenzione dello stadio il comodato d’uso gratuito che di fatto spettava alla squadra, alla gente, alla tifoseria, alla città a cui quello stadio apparteneva. Fa rabbia non il silenzio, la distanza o il lassismo della politica locale, ma il già citato vassallaggio offerto alla Mapei, a riprova del quale, nel nesso di causa-effetto, ci vengono elencati esponenti di partito e fulminei avanzamenti di carriera fino alle soglie di Roma.
“Il Sassuolo porterà benessere a Reggio Emilia” ripeterono ipnoticamente come un mantra quelle persone e tra le rassicurazioni iniziali c’era anche quella della collaborazione fra le parti e la garanzia che la Reggiana sarebbe stata tutelata e addirittura incentivata nella sua crescita. Ma ad oggi, di quei buoni auspici non restano che vaghe e lontane parole. La pacifica convivenza non è invece mai stata tale nei fatti, la piazza ha sempre e da subito mostrato insofferenza verso questa situazione, verso il paradosso di ritrovarsi ospiti in casa propria. Lo aveva palesato già l’indomani del blitz con cui Squinzi acquisì lo stadio, con una manifestazione molto simile a quella odierna, mossa sempre dal Mirabello e conclusa in Piazza Prampolini dopo aver percorso le vie del centro. Questa volta in realtà il corteo chiuderà nell’antecedente Piazza San Prospero in virtù di un mercatino che occupa l’altra piazza, ma i significati saranno ugualmente e forse ancora più importanti.
I reggiani e la Reggio sportiva avvertono e denunciano un tentativo di vera e propria colonizzazione economica e sportiva che a fronte di ipotetici benefici di immagine, incassa dalla squadra cittadina reali e lauti canoni d’affitto. O meglio, e qui sono nate le aspre contrapposizioni dell’ultimo periodo, dovrebbe incassarli, questo perché il patron della Reggiana Mike Piazza lamenta l’insostenibilità di queste spese ed aveva già chiesto alle istituzioni di farsi mediatrici nella disputa che il Sassuolo, nel frattempo, aveva liquidato con un laconico: «Esiste un contratto e Piazza lo deve rispettare».
Per la proprietà italo-americana però, quel contratto, sottoscritto dall’allora presidente reggiano Compagni e dall’ad di “Mapei Stadium” Carlo Pecchi, non è stato firmato da loro, non lo ritengono valido e, di fatto, non stanno pagando il canone previsto. Da parte sua, la “Mapei Stadium” parla di un insoluto di quasi 600 mila euro e rimanda al mittente tutte le accuse della famiglia Piazza che – secondo loro – ha altri e alti problemi di debito nei quali quelli per l’affitto inciderebbero solo per il 2,9%, per cui – sempre secondo il comunicato di risposta emesso dalla società gestrice dello stadio – questo non sarebbe altro che un tentativo di plagiare la tifoseria e veicolare sugli altri le proprie responsabilità.
Ad ogni modo e abbastanza prevedibilmente, la tifoseria – Teste Quadre e Gruppo Vandelli in testa – si è apertamente schierata con Piazza, al quale sono stati anche dedicati alcuni cori e passaggi del comunicato letto in piazza San Prospero, a conclusione del corteo. Una festa fatta di tante bandiere, colori, fumogeni, battimani e sciarpate. Nel serpentone si sono visti anche i gemellati di Vicenza e Cremona. Diversi e netti i cori contro Squinzi, contro il Sassuolo invitato senza mezzi termini ad andar “via da Reggio Emilia”. Sempre difficile fare stime numeriche a margine: da qualche parte, sui giornali, si parlava di presenze fra i 2.000 e i 2.500 partecipanti, comprese tantissime famiglie di granata bardate, con tanto di mogli e bambini con le bandiere al cielo.
«Il loro problema è questo» – ci spiegano alcuni ragazzi alla luce di questa adesione così ampia e varia – «loro pensavano di comprare anche la piazza, pensavano che bastasse la Serie A per convertire una città dal granata al neroverde, ma non avevano fatto i conti con la tradizione e l’orgoglio reggiano che si sono anzi radicalizzati in queste difficoltà. Così rimbalzando davanti al muro hanno cominciato a giocar sporco e comprare tutto quello che potevano comprare, a partire dalla squadra femminile e finendo con le scuole in cui regalano biglietti ai ragazzini pur di portarli allo stadio, ma nonostante i biglietti gratis e il richiamo delle grandi squadre della Serie A continuano ad avere meno spettatori della Reggiana perché è una questione genetica, a Reggio si tifa Reggiana».
Questa storia ha due diversi punti di vista, uno legale e uno morale e se dal punto di vista legale Squinzi ha regolarmente pagato tutto quello che ha rilevato, poco o molto ma l’ha pagato, ha legittimamente preteso un canone per l’affitto della sua proprietà e ancora reclama per riscuoterlo, dal punto di vista morale la città e la tifoseria di Reggio Emilia sono parte lesa tanto quanto i creditori del fallimento del 2005 e nessuno li ha mai risarciti.
Questa storia ha due diversi punti di vista, due diversi modi di vedere ed intendere il calcio, uno quello di carattere puramente manageriale, dove una qualsiasi entità imprenditoriale opera giustamente a vantaggio dei propri profitti, economici e anche di prestigio politico-sociale, considerato quanto spesso attraverso le squadre calcistiche tante persone hanno costruito una carriera anche al di fuori del mondo del calcio stesso. Dall’altra parte c’è chi invece della propria squadra è tifoso, proprietario ideale e custode delle tradizioni e della storia e in ogni caso, direttamente e indirettamente, la squadra la finanzia alla stessa maniera. Forse dovremmo anche essere meno stupidi, illusi e romantici e rassegnarci all’idea che il vituperato “calcio moderno” sia stato sdoganato da tempo, sia universalmente accettato, trasversalmente riconosciuto, ampiamente molto più accreditato dall’opinione pubblica rispetto a quei “violenti e ignoranti degli ultras”. C’è però una differenza sostanziale tra le due parti: che puntualmente i presidenti e gli imprenditori passeranno, mentre i tifosi saranno sempre lì, a quello stesso posto, dove da sempre sono stati dai primi vagiti del calcio nostrano. E al di là delle beghe fra i ras di quartiere meriterebbero rispetto e ascolto, nulla più.

 

Matteo Falcone.