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DAVIDE LIBERO











VENEZIA, LA PALESTRA PIÙ BELLA DEL MONDO

 

FONTE:Sport People

 

 

Una vicenda che m’ha sempre affascinato, quella relativa al vecchio impianto di gioco della Reyer Venezia, la maggior squadra di pallacanestro dell’impareggiabile città lagunare.
In pratica dalla sua fondazione, nel 1925, e fino al 1976, la compagine orogranata giocava le proprie partite interne alla cosiddetta Palestra della Misericordia: un luogo unico al mondo in cui dar vita a una partita di basket. Sita nella Scuola Grande della Misericordia edificata in epoca cinquecentesca da Jacopo Sansovino (uno dei maggiori architetti rinascimentali della Serenissima) e oggi ospitante una confraternita laica a scopo benefico, la palestra oggetto di queste righe non era altro che l’ex sala capitolare dove anticamente si riuniva la locale comunità monastica. Adattata a palestra (al cui interno si praticavano anche ginnastica e pugilato), la Misericordia fu per oltre cinquant’anni la casa della Reyer ed è considerata, dagli esegeti della palla a spicchi e da coloro che ebbero la fortuna di giocarvi, come uno dei “monumenti” del basket italiano, luogo della memoria per antonomasia.
In pratica, per chi vi arrivava – la palestra si trovava nel sestiere (quartiere) di Cannaregio. All’esterno, in perfetto stile veneziano, una grande pietra marmorea bianca in tutto simile a quelle che recano il nome di strade e piazze, con su inciso “Palasport della Misericordia”. Una volta entrati dentro si rimaneva letteralmente basiti nel rendersi conto che il campo di gioco era stato ricavato tra marmi, preziosi capitelli, stucchi e affreschi attribuiti alla scuola di Paolo Veronese (uno dei più grandi pittori del suo tempo) e sotto un intricato quanto elaborato tetto a travi in legno. Se si ha la pazienza di ritrovare qualche rara immagine di quel periodo (meglio ancora qualche filmato d’epoca) ci si può tranquillamente render conto dell’assoluta unicità del luogo. In mezzo all’arte e alla storia millenaria da sempre appannaggio del capoluogo veneto, si assisteva alle contese tra quegli uomini in canotte e calzoncini che cercavano disperatamente di infilare la sfera nei rispettivi canestri.
L’elemento che più salta agli occhi – parlo principalmente delle immagini fino agli Anni ’50 e ’60, poiché in seguito qualcosa è cambiato – è la totale simbiosi tra il giuoco che si sviluppa sul campo e gli spettatori che sono al suo bordo, da esso separati da barriera alcuna, neppure una minuscola transenna. Spalti corrono lungo l’intero perimetro della palestra e la folla che li gremisce come un unico e magmatico elemento, fa risaltare ancor più i dipinti e le sculture retrostanti che, seppur in penombra, data la propria eccezionalità e la forte dissonanza con la componente sportiva in primo piano, sono “presenti” e “vivi” regalando una sensazione credo davvero unica e impossibile da riscontrare in altre strutture adibite alla pratica dello sport. Era, in buona sostanza, come giocare a pallacanestro all’interno d’un museo!

 

 

La storia sportiva d’una comunità che incontra e si fonde con la Storia vera e propria, dando vita a un’alchimia di sapori, sensazioni e immagini davvero senza epigoni. Un po’ come se la Roma e la Lazio giocassero dentro la Basilica di San Pietro o dentro il Colosseo. Superfluo dire quanto il frangente umano contasse nelle partite della Reyer (conta in realtà ancor’oggi, per una tifoseria cestistica tra le più calde e appassionate) se è vero com’è vero che alla Palestra della Misericordia i padroni di casa si laurearono Campioni d’Italia per due volte consecutive, stagioni ’41-42 e ’42-43 (in realtà i lagunari si aggiudicarono anche il torneo successivo, ’43-44, vittoria mai omologata, causa bellica, dalla Lega basket).
Giocatori di “casa” che ricevevano persino pacche d’incoraggiamento sulle spalle nei momenti in cui erano vicini alla linea terminale del campo e di contro giocatori “ospiti” che – seppur non venissero sfiorati da un pubblico eccezionalmente corretto e competente – sentivano, come si suol dire, il fiato sul collo della tifoseria veneziana, in un periodo comunque più “rilassato” da un punto di vista sportivo e in cui l’esacerbazione dei toni non aveva ancora raggiunto i livelli di guardia odierni. Diciamo che si era più uniti, più comunità e non c’erano parti dei palazzetti o degli stadi da ghettizzare o additare come il male assoluto a seconda dell’ipocrita convenienza del momento, sia da parte dell’opinione pubblica che degli organi d’informazione assai abili in questo tipo di speciose pratiche.
In principio pare che la Palestra della Misericordia potesse contenere circa 800 spettatori, capienza col tempo portata fino a 1.500 anche grazie all’aggiunta di tribune sempre più moderne e razionali. Ma la passione dei tifosi reyerini era tale che l’originalissimo impianto si riempiva come un uovo in ogni occasione e spesso s’assisteva a file chilometriche, della durata di ore, da parte degli sportivi e appassionati desiderosi d’accaparrarsi un posto per seguire le partite. Anche per questo – oltre naturalmente a esigenze d’ordine pubblico che imposero ai palazzi dello sport di Serie A capienze non inferiori ai 3.500 posti – si rese necessaria la costruzione d’un impianto più grande (e logicamente più funzionale, per quanto indubbiamente meno affascinante), il cosiddetto Arsenale che fu una casa intermedia per la Reyer che attualmente gioca le proprie gare interne al PalaTaliercio di Mestre.
Restano i ricordi e le bellissime e preziose immagini perlopiù in bianco e nero di quel periodo, tanto lontane quanto seducenti, quando lo sport era davvero della gente e appartenendo a tutti lo si poteva praticare all’ombra dei monumenti e delle effigi storiche della Città dei Dogi. Quanta meraviglia in quelle fotografie e filmati d’epoca, quanta magia in quella dissonanza che si creava tra elementi soltanto all’apparenza antitetici e inconciliabili: sport, storia e arte. Pur non avendo vissuto, per ragioni anagrafiche, quel meraviglioso periodo, se chiudo gli occhi mi par quasi di poter sentire il rimbombante urlo d’acclamazione della folla stipata sui gradoni e a bordo campo della Misericordia e il soffio dell’aria mossa dei dieci uomini che si rincorrono veloci sul parquet dandosi battaglia, coi fiói in canotta orogranata che – celebrando un’Italia peculiare e ormai perduta nel pozzo del tempo – divengono essi stessi arte, essi stessi storia, nella “palestra più bella del mondo”.

 

Luca “Baffo” Gigli