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Aiutiamoli a casa loro: le mani del neocolonialismo italiano sull’Africa

 

FONTE: InfoAut

 

Il ritornello xenofobo del “non sono razzista ma…” si accompagna spesso alla litania dell’ “aiutiamoli a casa loro”. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore e così il problema sembra rimosso. Ma come li stiamo aiutando a casa loro? Gli interessi economici delle imprese italiane nel continente africano sono consistenti. Superati il XIX e il XX secolo la matrice della rapina coloniale si ripropone in nuove forme, per conto dell’Eni o di Impregilo. La scia di morte e corruzione arriva fino in Italia. Poche settimane fa l’arresto di un legale di Eni, Pietro Amara, e di un magistrato siciliano che dietro compenso apriva false indagini per colpire i concorrenti del colosso energetico. L’aiuto supposto che diamo a casa loro diventa un problema in casa nostra. Perché non si dovrebbe cercare vendetta o risarcimento contro questi razziatori?

 

Pietro Amara, legale di Eni dal 2002, ha difeso la multinazionale in tante inchieste per disastro ambientale. Una consuetudine per Eni. Nel 2010 un incidente nel delta del Niger provoca lo sversamento di ingenti quantità di petrolio sui terreni della tribù Ikebiri, i terreni sono danneggiati e a distanza di anni la terra è impregnata ancora di idrocarburi da due a quattro volte tanto il limite consentito. Devastano la tua terra. Non puoi più vivere dove hai sempre vissuto. Eni offre 6.000 euro di risarcimento (seimila!). Gli Ikebiri non accettano ulteriori risarcimenti, pretendono la bonifica delle terre e intentano una causa in Italia contro la multinazionale. Pietro Amara di procedimenti analoghi deve averne visti altri. Difendendo gli interessi di Eni vince tutti i processi per conto dei devastatori ambientali. È un recordman e questo insospettisce il ministero
Tanto che nel 2012 il ministero di Grazia e Giustizia invia alcuni ispettori alla procura di Siracusa: alcuni pm vengono trasferiti in via cautelare.
Ma Amara insieme ad alcuni suoi colleghi continua a lavorare e redige un falso dossier su un complotto ai danni di Eni comprendente false dichiarazioni ed esposti anonimi. L’obiettivo è quello di silurare alcuni ex consiglieri del gruppo e anche quello di ostacolare le indagini svolte dalla procura di Milano sulle maxi tangenti versate in Nigeria da Eni. Una vera opera di depistaggio. Un miliardo e 92 milioni di dollari destinati allo stato nigeriano come compenso da parte di Eni e Shell per l’utilizzo di un grande giacimento petrolifero sarebbero stati in realtà versati interamente nelle tasche di ex ministri, parlamentari, generali e faccendieri. Attorno a questa storia torbida di rapina e saccheggio ai danni delle popolazioni africane anche un recente fatto di cronaca: il capo dell’agenzia anticorruzione governativa della Nigeria è stato oggetto di un attentato realizzato da un commando armato nel quale ha perso la vita una sua guardia del corpo e lui è uscito illeso.
Si capisce come il giro di affari sia vorticoso ed ecco perché la Francia in realtà non vede di buon occhio la missione italiana in Sahel annunciata da Gentiloni alla vigilia dello scioglimento delle camere. Ma gli interessi italiani non si fermano all’Africa occidentale. Nel corno d’Africa la partita sulla costruzione sul fiume Nilo di Gibe III, la più grande diga del continente a opera dell’italiana Impregilo, coinvolge le politiche idriche di Egitto, Sudan ed Etiopia mettendo a repentaglio l’autonomia alimentare di più di mezzo milione di persone.
La grande opera italiana è voluta dal governo di Addis Abeba in una partita politica giocata soprattutto contro il vicino egiziano ma che sta avendo pesanti ripercussioni anche sul fronte della politica interna tanto da portare alle dimissioni del primo ministro Haile Mariam, incapace di sedare le rivolte e abbandonato dalle élite tigrine che controllano il paese. Attorno alla diga si gioca infatti anche una guerra civile sulla linea etnica che divide gli Oromo, più numerosi ma esclusi dalle leve del paese, e Tigrini. Gibil III infatti sorgerebbe a monte della valle dell’Omo. Essa servirebbe le nuove colture intensive che sostituirebbero le coltivazioni tradizionali degli Oromo già compromesse dai primi lavori sulla diga che hanno messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Migliaia di Oromo hanno resistito alle politiche di deportazione forzata dal 2015 a oggi che hanno provocato centinaia di vittime. E poi dicono che scappano perché non combattono laggiù…