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DAVIDE LIBERO











Migranti: Quei fantasmi dannati nella neve di Lipa

 

FONTE:Avvenire

 

Reportage. Nel campo «ufficiale» dieci gabinetti per mille uomini. Solo un panino e carne in scatola, niente zuppa calda. Si sta in quaranta dentro una tenda, tre metri quadri per persona, in questo angolo gelido della Bosnia. Nelle case abbandonate di Bihac ci si scalda al fuoco. E le vite dei profughi sono in mano ai trafficanti.

 

I prigionieri di Lipa avanzano nella bufera un palmo alla volta. L’ultimo della fila ci metterà due ore prima di ricevere un panino e un barattolo di carne in scatola. Nell’accampamento sorvegliato dalle forze speciali bosniache la vita degli ostaggi del “ game”, l’insana sfida per raggiungere l’Europa, è organizzata come in uno stalag, un campo di concentramento: per tutto il giorno non c’è nulla da fare.

In quaranta dentro a una tenda ad arco vuol dire 3 metri quadri per persona, branda compresa. Non ci si muove. Intorpiditi e ammassati nei letti a castello, migranti e profughi attendono la luce del giorno come una benedizione. Dopo il tramonto l’unica fonte luminosa è la stufetta da campo, che pompa calore attraverso una bocca che si accende di rosso fuoco. Alla lunga, anche a causa del sovraffollamento, l’aria calda diventa irrespirabile. Se il Covid dovesse arrivare nel campo di Lipa, non ci sarebbe modo per starne alla larga. Molti lamentano mal di testa, affanno, male alla schiena e alle gambe. «Se non puoi camminare devi prendertela con i croati», dice il poliziotto bosniaco al giovane sciancato. È stato respinto 52 volte, ma per qualche tempo se ne starà a Lipa, in fondo alla tenda verde “T6”, dove almeno ha da sognare la primavera e una buona occasione per non farsi acciuffare fino a Francoforte, dove lo aspetta la fidanzata.

Nella “T8” ci vivono ragazzi loquaci. Nella “T4”, troppo vicina al container della polizia, preferiscono invece tacere. Il direttore della prigione di neve è un ufficiale dal sorriso largo che sa farsi grugno. Quando avverte che sono scaduti i novanta minuti di apertura straordinaria concessa a un gruppo di giornalisti stranieri, i dannati di uno dei rifugi di tela cerata coperta da un velo ghiacciato, decidono di nasconderci in fondo, tra le cuccette più al buio. «Dovete raccontare quello che succede qui», fa in tempo a ripetere il più anziano quando ormai gli agenti ci accompagnano fuori con modi spicci. In occasione della visita dei quattro europarlamentari italiani, le autorità hanno permesso che arrivasse più cibo del solito. «La verità – racconta un afghano – è che ci danno da mangiare due volte al giorno. Un pezzo di pane e una scatoletta che riscaldiamo vicino alla stufa». Dopo un silenzio di mesi, finalmente ieri le autorità hanno autorizzato Ipsia, che con Silvia Maraone coordina i progetti di Acli e Caritas, a insediare un refettorio che potrebbe aprire a giorni. Nell’accampamento c’è un gabinetto ogni 100 persone. La fitta coltre di neve può essere una trappola, per chi non sa che tra una tenda e l’altra gli avvallamenti sono latrine che la tormenta copre, mascherandone la presenza e il puzzo. L’acqua dei pochi rubinetti è talmente gelata che il più delle volte non arriva neanche a sgorgare, mentre le tubature si gonfiano come grosse vene ostruite dal ghiaccio. Non di rado si vede qualcuno affrontare la bufera in canottiera, mentre riempie di neve una ciotola e ci versa dell’acqua così da sciogliere il grumo ghiacciato e averne a sufficienza per improvvisare una doccia. E’ anche un modo per tenersi in forma.

Il “ game” non è uno scherzo, e non è per tutti. Ci vogliono gambe e testa. Ma non servono a molto se non si è anche fortunati. Perciò i mille del campo ufficiale di Lipa sono destinati a fallire decine di volte. Chiusi dentro alle tende e condannati all’immobilità, non fanno che pochi passi al giorno. Le attese, però, addestrano a non essere impazienti. «Mi hanno riportato indietro 52 volte», dice un ventenne afghano preso la prima volta da minorenne alla frontiera croata, un’altra quando oramai il gps gli indicava l’Italia a pochi tornanti, un’altra ancora quando è rotolato giù da una scarpata cadendo ai piedi delle guardie. In Bosnia si è ripresentato senza i segni delle frustate addosso. Aveva già una caviglia gonfia e la faccia piena di escoriazioni. Bastonarlo non serviva.

Dall’accampamento, volendo si può uscire. I poliziotti non fanno nulla per trattenere i migranti. Si direbbe anzi che le giornate di Lipa sono pensate per incoraggiare ad andare via. Fuori dal campo ufficiale, che il governatore locale non vuole ampliare, ci sono migliaia di persone. Se si escludono un paio di centri per sole donne e la tendopoli maschile di Lipa, almeno seimila stranieri sopravvivono al di fuori dei circuiti di permanenza. In gran parte sono afghani, pachistani e bengalesi. Molti gli iraniani. Per arrivare qui hanno atraversato per terra e per mare Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, alcuni anche Bulgaria e Albania. L’ultimo

arrivato, un iraniano, è in viaggio da quattro mesi. Altri sono bloccati qui da due anni. Tutti sono diretti dentro ai confini dell’Ue, preferibilmente Italia, Germania, Francia e Spagna.

A Bihac ci sono alcuni dei più affollati squat, gli immobili abbandonati che gli stranieri hanno trasformato in dormitori di fortuna. Per scaldarsi alimentano il fuoco con rifiuti di plastica. «il fumo è nero, ma scalda di più», assicura un iraniano con aria da veterano. Chi si rifugia qui cerca anche di mantenersi in allenamento.

L’addestramento in queste giornate sottozero comincia tardi. Si esce dalle coperte dopo le 10, quando il sole concede almeno l’illusione di una giornata mite. Poi si comincia a girare in tondo, fuori dal palazzo occupato, lungo il fiume e intorno alla città. Avanti e indietro per chilometri. La salita in collina e la discesa tra i pendii ghiacciati. Inutile mettersi a correre. Chi ha scarpe ancora senza buchi, sa che non bisogna strafare. Senza calzature che reggano almeno l’ascesa dei valichi più tortuosi, è inutile provare il “ game”.

Quando manca poco al tentativo, meglio allenarsi con uno zaino caricato con qualche peso. Per arrivare a Trieste se va bene ci vogliono un paio di settimane. Si dorme all’aperto, nei boschi. E bisogna camminare anche quando il fiato è corto, perché mettere ore di cammino tra sé e le pattuglie di confine è l’unico modo per sperare di non venire catturati, malmenati e riportati al punto di partenza. Tra loro nessuno ha scarponi da neve. Ma pare non sia una buona ragione per rinunciare alla sfida. Non c’è un momento esatto per dare il via alla traversata campestre. Dipende anche dai trafficanti. Chi ha denaro paga per essere portato all’imboccatura dei sentieri più impervi. Improvvisati tassisti o passeur di mestiere promettono la certezza di un passaggio sicuro. «Ho pagato 400 euro a un turco che doveva portarmi in Slovenia, poi ci ha abbandonati in montagna e la polizia croata ci ha presi», racconta un bengalese che oramai è troppo lontano da casa per dire ai suoi di voler rinunciare dopo avere sprecato mesi e denaro.

Che il giorno della partenza sia vicino lo si capisce quando a piccoli gruppi si riuniscono intorno a un fuoco e preparano gli zaini. Tutto ciò che è di vitale importanza viene regolarmente impacchettato in sacchetti di cellophane ricoperti da uno spesso strato di nastro adesivo. Documenti, soldi, batterie di riserva per il cellulare. Protetti e impermeabilizzati, gli unici averi che i migranti possono tenere con sé, devono resistere alle intemperie. Ma chi torna a Lipa, dopo essere stato catturato in Croazia, rientra sempre a mani vuote.

 

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