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Carcere, il destino parallelo di detenuti e agenti penitenziari

 

FONTE:lavialibera.it

 

Il governo continua a negare diritti alle persone recluse, ma la stretta produce effetti negativi anche sugli agenti: il carcere è un luogo malsano e i tanti suicidi da entrambe le parti ne sono la prova

 

Nelle ultime settimane il governo guidato da Giorgia Meloni ha approvato un disegno di legge definito “pacchetto sicurezza” che, fra le altre cose, introduce per i detenuti il reato di rivolta penitenziaria. Una fattispecie che, oltre a punire le condotte violente, prevede pene spropositate – fino a 8 anni e con l’ostatività prevista per i reati di mafia e terrorismo – per chi protesta anche in maniera non violenta. È il caso, ad esempio, dei detenuti che rifiutano di rientrare nella loro cella per protestare pacificamente contro il sovraffollamento, problema per il quale l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea di Strasburgo.

 

 

Detenuti e agenti nella stessa barca

 

La norma non nasce dal nulla, ma da una precisa visione del mondo carcerario condivisa da alcune forze politiche e sindacati di polizia penitenziaria. Una visione che vede agenti contro detenuti. In provenzale esiste una parola chourmo, che significa letteralmente “la ciurma”, “i rematori della galera”. Sono le persone che vivono la stessa situazione e che remano insieme per venirne fuori. Benché in altro modo, con altri ruoli, altre prerogative e anche altri poteri, in quella galera ci sono anche gli agenti. Qualche giorno fa un agente scriveva una lettera al giornalista di RepubblicaFrancesco Merlo, lamentando il fatto che il carcere è l’unico luogo al chiuso dove ancora si può fumare e dove i poliziotti subiscono il fumo passivo e i conseguenti effetti sulla salute. In realtà a subirlo sono pure le persone detenute, fumatrici e non. In carcere, al chiuso, il fumo inonda i corridoi e gli spazi comuni. Una soluzione potrebbe essere quella di continuare a garantire la possibilità di stare non solo fuori dalle celle, ma negli spazi all’aperto per più tempo. Purtroppo, nella realtà sono sempre meno le persone detenute che possono passare più di quattro ore al giorno fuori dalle celle, perciò pensare di proibire a un fumatore di fumare per 20 ore su 24 diventa impossibile.

 

Disagio e marginalità sociale

 

Ogni tanto Antigone è accusata di occuparsi soltanto dei diritti delle persone detenute, escludendo quelli degli altri operatori penitenziari, a cominciare dai poliziotti. In realtà un sistema che funziona e garantisce diritti migliora la vita di tutti. Sono ormai decine gli studi che raccontano di come un ambiente di lavoro positivo abbia effetti importanti sulla vita dei lavoratori. In carcere, per avere un ambiente di lavoro sano non serve solo migliorare le condizioni di vita dei custodi, ma anche quelle delle persone custodite. Il fatto che il numero di suicidi tra gli agenti penitenziari sia molto alto non è un caso. Lavorare in un carcere dove le persone detenute dovrebbero essere 300 e invece sono il doppio comporta un carico di lavoro e problemi da gestire molto più alto, anche a fronte di organici ridotti e all’impiego di molti agenti penitenziari al di fuori del penitenziario. Dover gestire persone con patologie psichiatriche o con dipendenze è complesso per chi non ha una formazione specifica, eppure le politiche governative continuano a riempire le carceri, che diventano un collettore di disagio e marginalità sociale. Servirebbe, invece, spingere per una presa in carico esterna e specialistica, sanitaria e non penale. La riforma che portò alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) prevedeva la realizzazione di una serie di strutture e politiche mirate, rimaste soltanto sulla carta.

 

Luogo senza speranza

 

Il carcere è un luogo che priva il detenuto della libertà personale ma anche degli affetti, con leggi e regolamenti che consentono un contatto con l’esterno minimo. Un luogo che in molti casi non offre opportunità lavorative, attività ricreative e di studio. La prospettiva di cambiare vita è spesso un’utopia e questo produce disperazione, sconforto e rabbia che le persone riversano su loro stesse.
Secondo Antigone nel 2023 si sono registrati 16,3 atti di autolesionismo ogni 100 persone detenute, mentre i suicidi sono 68. Senza dimenticare le violenze contro gli altri: 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute ogni 100 detenuti presenti. Provare a migliorare la condizione delle persone recluse significa anche migliorare la qualità della vita di tutti gli operatori che nel carcere lavorano e, in prima persona, pagano gli effetti delle politiche governative, soprattutto quelle populiste che sul ricorso al carcere basano il loro consenso.

 

Andrea Oleandri
Responsabile comunicazione di Antigone