Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’«imminente» sblocco dell’empasse istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato, il Guardasigilli ha puntualizzato però che «spetta al ministro proporre al Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al sottosegretario». Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è colpa della «bulimia legislativa» del governo «ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione».
Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del Dipartimento di Largo Daga: «Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione eccezionale», ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, «il gruppo di lavoro multidisciplinare» da lei creato «per la prevenzione degli eventi suicidari delle persone detenute». Che però non ha impedito il suicidio in carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è «il segno più eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari», segnala l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap consideri invece prioritario emanare «una circolare-manifesto» che impartisce regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più «rigorosa applicazione del regime di “custodia chiusa”».
Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma «disponibile da poco tempo», e giustificata da «non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime “proteste” e “lamentele”» che segnalerebbero, secondo il Dap, «modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore» e non aderenti «alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria». Gli avvocati penalisti si scagliano anche contro la «cortina di silenzio che il Dap ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori». Un problema, questo, che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche l’«imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei» e «la lettura preventiva degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni».
In questo quadro inquietante cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere milanese di Opera, «nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo» e le tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono «come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti significativi con un’organizzazione criminale».
La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani – che proibisce di sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti – «costituisce di per sé un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito» dall’anziano detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva.
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