Stefano Cucchi, geometra romano di 32 anni, viene arrestato nella Capitale la sera del 15 ottobre 2009 per possesso di sostanze stupefacenti. Aveva con sé 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, intorno all’1.30, i carabinieri che lo hanno arrestato lo accompagnano a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio.
La mattina successiva è tempo del processo per direttissima. Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto, segni di un pestaggio che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.
Lì, quella stessa sera, le sue condizioni di salute peggiorano e viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere.
Le condizioni si aggravano e si rende necessario il ricovero all’ospedale Sandro Pertini. Lì, la sera del 22 ottobre, una settimana dopo l’arresto, Stefano Cucchi muore. Solo a quel punto i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo.
Dopo la morte di Stefano Cucchi, il personale carcerario negò di avere esercitato violenza sul giovane ed espresse diverse ipotesi sulla causa della morte, dicendo che lo stesso poteva essere morto o per conseguenze a un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto al ricovero al Fatebenefratelli. Il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi dichiarò che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza, asserendo altresì che il ragazzo fosse sieropositivo. Successivamente si pentì per queste false dichiarazioni e si scusò con i familiari. Nel frattempo, per fermare le illazioni che venivano fatte sulla sua morte, la famiglia pubblicò alcune foto del giovane scattate in obitorio nelle quali erano ben visibili vari traumi da violente percosse e un evidente stato di denutrizione.
Durante le indagini circa le cause della morte, un testimone dichiarò che Stefano Cucchi gli aveva detto d’essere stato picchiato; il detenuto Marco Fabrizi chiese di essere messo in cella con Stefano (che era solo) ma questa richiesta venne negata da un agente che fece con la mano il segno delle percosse; la detenuta Annamaria Costanzo affermò che il giovane le aveva detto di essere stato picchiato, mentre Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti di polizia penitenziaria picchiare Cucchi con violenza
Le indagini preliminari sostennero che a causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno (con conseguente ipoglicemia), la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1.400 cc di urina, con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche). Inoltre determinante fu l’ipoglicemia in cui i medici lo avevano lasciato, tale condizione si sarebbe potuta scongiurare mediante l’assunzione di un semplice cucchiaio di zucchero.
Sempre stando alle indagini, gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici avrebbero gettato il ragazzo per terra procurandogli le lesioni toraciche, infierendo poi con calci e pugni. Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vengono indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato il giovane e che lo avrebbero lasciato morire di inedia. Questi si difesero dicendo che era il giovane a rifiutare le cure.
Il 6 novembre 2009 vengono ritrovati 925 grammi di hashish e 133 grammi di cocaina in un appartamento saltuariamente occupato da Stefano Cucchi e di proprietà della sua famiglia: a comunicare l’esistenza della droga al magistrato sono gli stessi congiunti di Cucchi. Su questo fatto viene ascoltato come testimone il padre. Secondo i legali, questo comportamento è indice della volontà dei genitori di prestare la massima collaborazione agli investigatori per arrivare ad accertare le cause della morte di Stefano. Il 14 novembre 2009 la procura di Roma contesta il reato di omicidio colposo a carico di tre medici dell’ospedale Sandro Pertini dove era stato ricoverato Cucchi e quello di omicidio preterintenzionale ai tre agenti della penitenziaria che avevano in custodia il ragazzo nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma, poco prima dell’udienza di convalida dell’arresto.
Il 27 novembre 2009 una commissione parlamentare d’inchiesta, indetta per far luce sugli errori sanitari nell’area detenuti dell’Ospedale Pertini di Roma, conclude che Stefano Cucchi è morto per abbandono terapeutico. Il 30 aprile 2010 la procura di Roma contesta ai medici del Pertini, a seconda delle posizioni, il favoreggiamento, l’abbandono di incapace, l’abuso d’ufficio e il falso ideologico. Agli agenti della polizia penitenziaria vengono contestati invece lesioni e abuso di autorità. Tredici in tutto sono le persone rinviate a giudizio. Decadono dunque il reato di omicidio colposo a carico dei medici e quello di omicidio preterintenzionale a carico degli agenti della penitenziaria.
Il 13 dicembre 2012, durante il processo di primo grado, i periti incaricati dalla corte hanno stabilito che il giovane è morto a causa delle mancate cure dei medici, per grave carenza di cibo e liquidi. Affermano inoltre che lesioni riscontrate post mortem potrebbero essere causa di un pestaggio o di una caduta accidentale e che “né vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva“. |
Primo Grado
Il 5 giugno 2013 la III Corte d’Assise condanna in primo grado quattro medici dell’ospedale Sandro Pertini a 1 anno e 4 mesi e il primario a 2 anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico, mentre assolve 6 tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi.
Per i medici, dunque, il reato di abbandono di incapace viene derubricato in omicidio colposo. Il PM aveva chiesto per questi ultimi (Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti e Flaminia Bruno) pene tra i 5 anni e mezzo e i 6 anni e 8 mesi. Aveva inoltre sollecitato una condanna a 4 anni di reclusione per gli infermieri e a 2 anni per gli agenti penitenziari. Le accuse nei confronti di questi ultimi erano di lesioni personali e abuso di autorità. Sono stati assolti con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove.
La lettura della sentenza è stata accompagnata da grida di sdegno da parte del pubblico in aula
Processo d’appello
Il 31 ottobre 2014, con sentenza della Corte d’appello di Roma, vengono assolti tutti gli imputati, fra cui i medici: a seguito di ciò il legale della famiglia Cucchi preannuncia un ricorso alla Corte di Cassazione, mentre la sorella Ilaria dichiara che avrebbe chiesto ulteriori indagini al Procuratore capo della Repubblica, Pignatone, e che avrebbe continuato le sue campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul caso. L’incontro tra la Cucchi e Pignatone avviene il 3 novembre e, stando alle parole della donna, il procuratore si impegna a rivedere tutti gli atti dell’indagine sin dall’inizio. Lo stesso giorno, il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe deposita una querela contro Ilaria Cucchi perché ella «istiga all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza».
Cassazione
La Cassazione nell’udienza pubblica del 15 dicembre 2015, dispone il parziale annullamento della sentenza di appello. ordinando un nuovo processo per 5 dei 6 medici (in particolare il primario Aldo Fierro e gli aiuti Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo), dell’Ospedale Pertini precedentemente assolti. Secondo il verdetto, gli stati patologici di Cucchi, preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato, avrebbero dovuto imporre maggiore attenzione ed approfondimento da parte dei sanitari. Appello-bis
Il 18 luglio 2016 la Corte d’appello di Roma assolse i cinque medici dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste” Cassazione-bis
La I Sezione Penale della Cassazione, nell’udienza pubblica del 19 aprile 2017, dispose l’annullamento dell’ulteriore sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per i cinque medici dell’ospedale Pertini. Secondo la Corte, i sanitari avevano dimostrato gravi negligenze per ritardi sia nella diagnosi, sia nelle cure, e per tale motivo la sentenza di assoluzione fu considerata contraddittoria ed illogica. L’indomani, 20 aprile 2017, scattò peraltro la prescrizione per il reato contestato. Appello-ter
Il 23 marzo 2018 si aprì il nuovo processo d’appello davanti alla II Sezione della Corte d’appello di Roma. Si costituì parte civile, fra gli altri, anche il comune di Roma. Nell’ambito del procedimento, fu eseguita una nuova perizia tecnica sulle cause della morte di Stefano Cucchi, eseguita dai medici Anna Aprile e Alois Saller, che secondo la pubblica accusa e gli avvocati di parte civile evidenzia le negligenze nell’operato degli imputati. Nell’udienza del 6 maggio 2019 il sostituto procuratore generale Mario Remus chiese il “non doversi procedere” nei loro confronti, per intervenuta prescrizione del reato di omicidio colposo, richiesta che preludeva ad un loro proscioglimento in sede penale, ma non ai fini della responsabilità civile. Con la sentenza del 14 novembre 2019, i giudici assolsero per non aver commesso il fatto la dottoressa Stefania Corbi e dichiararono il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo La seconda inchiesta
Su espressa richiesta dei familiari, nel settembre 2015 la Procura della Repubblica di Roma riaprì un fascicolo d’indagine sul caso, affidandolo al sostituto procuratore Giovanni Musarò. Il legale della famiglia Cucchi aveva in precedenza esposto al magistrato che un militare dei Carabinieri, Riccardo Casamassima, aveva ricevuto minacce al fine di rendere testimonianza negativa nell’ambito del processo d’appello, e che l’interessato aveva motivo di credere che tali minacce provenissero da uno o più ex-colleghi coinvolti nel caso.
Il 30 giugno 2015 Riccardo Casamassima aveva frattanto reso spontanee dichiarazioni al sostituto Musarò, convincendolo della necessità di riaprire l’indagine, rivolta in particolare ai carabinieri presenti nelle due caserme ove era avvenuta dapprima l’identificazione, quindi la custodia in camera di sicurezza di Stefano Cucchi, tra la sera del 15 e la mattina del 16 ottobre 2009, data dell’udienza di convalida dell’arresto. Emerse infatti quasi subito che, contrariamente a quanto riportavano i documenti ufficiali dell’Arma e a quanto avevano raccontato alcuni carabinieri nel precedente processo, dopo la perquisizione domiciliare Cucchi non fu immediatamente ricondotto nella Stazione Roma Appia, ma fu prima portato nella caserma della Compagnia Roma Casilina dai carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco per il foto-segnalamento e, poiché aveva opposto resistenza, fu picchiato.
Nel dicembre del 2015, il gip dispose una perizia per stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi. L’esito della perizia fu depositato nell’ottobre del 2016: i periti individuarono due possibili cause del decesso di Cucchi, cioè un’improvvisa morte per epilessia e il globo vescicale causato dalla frattura della vertebra sacrale, a sua volta dovuta al pestaggio da parte dei carabinieri. Secondo i periti, però, non era possibile stabilire con certezza la sussistenza del nesso di causalità tra il pestaggio e la morte a livello biologico perché se il paziente fosse stato curato adeguatamente forse sarebbe sopravvissuto. Tuttavia, una volta sentiti in sede di incidente probatorio, i periti esclusero l’epilessia come causa del decesso e chiarirono che, se Cucchi non fosse stato picchiato, egli verosimilmente non sarebbe morto, ribadendo implicitamente così la sussistenza del nesso di causalità a livello giuridico.
Il 17 gennaio 2017, alla conclusione delle indagini preliminari, fu chiesto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti dei militari dell’Arma dei Carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di aver colpito Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni divenute mortali per una successiva condotta omissiva da parte dei medici curanti, e per averlo comunque sottoposto a misure restrittive non consentite dalla legge. Tedesco e il maresciallo Roberto Mandolini, che all’epoca dei fatti era il comandante della Stazione Roma Appia, dovettero anche rispondere dell’accusa di falso ideologico per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, che secondo l’accusa aveva l’obiettivo di occultare le responsabilità di questi ultimi e dello stesso Tedesco per la morte di Stefano Cucchi. Tedesco e Mandolini, insieme all’appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, anch’egli all’epoca dei fatti in servizio presso la Stazione Roma Appia, dovettero rispondere infine dell’accusa di calunnia perché, avendo reso dichiarazioni false nel precedente processo a carico dei tre agenti di polizia penitenziaria in cui erano stati chiamati a testimoniare, avevano accusato implicitamente i tre agenti di polizia penitenziaria del pestaggio di Stefano Cucchi pur essendo consapevoli della loro innocenza.
Il 24 febbraio 2017 furono precauzionalmente sospesi a tempo indeterminato dall’impiego i tre militari accusati di omicidio preterintenzionale.
Il 10 luglio 2017 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma accolse la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati, salvo il non doversi procedere per il reato di abuso di autorità per intervenuta prescrizione.
Il processo-bis
La prima udienza del processo-bis contro i primi cinque militari, a vario titolo per omicidio preterintenzionale, falso e calunnia si tenne il giorno 16 novembre 2017 davanti alla I Corte di assise di Roma; la pubblica accusa era rappresentata dal sostituto procuratore Giovanni Musarò.
Nell’udienza dell’11 ottobre 2018, il PM rese nota la denuncia presentata da Francesco Tedesco, che aveva riportato ciò che era successo nella caserma della Compagnia Roma Casilina e aveva indicato Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro come gli autori del pestaggio. Il procuratore informò inoltre la corte di quanto era emerso nel frattempo dalle indagini, in particolare dei tentativi di depistaggio.
Nel corso della sua requisitoria, il Pubblico Ministero Giovanni Musarò così si espresse: “Finora noi abbiamo dimostrato che dopo la morte di Stefano Cucchi per diversi giorni l’Arma dei Carabinieri non si è mossa, non ha fatto alcuna indagine interna. Dal 22 al 26 ottobre non succede niente, poi dal 26-27 ottobre iniziano a pullulare tutta una serie di annotazioni. Ma cosa è successo il 26 ottobre del 2009, che finalmente vi siete dati una mossa? Nessuno ha saputo rispondere. Ora una risposta ce l’abbiamo, perché risulta dai documenti. Tutto trae origine da un’agenzia ANSA battuta alle 15:38 del 26 ottobre 2009, in cui Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, e Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto onlus, fanno una pubblica denuncia in merito alla vicenda Cucchi. E dicono testualmente: al momento dell’arresto, che poi è quello della perquisizione, secondo quanto riferito dai familiari, Stefano Cucchi stava bene, camminava sulle sue gambe e non aveva segni di alcun tipo sul viso. La mattina seguente all’udienza per direttissima il padre nota tumefazioni al volto e agli occhi. Con questa nota ANSA Gonnella e Manconi non solo chiedono verità, ma indicano un preciso lasso temporale a riprova di come i fatti fossero immediatamente chiari, prima che qualcuno iniziasse a mischiare le carte”.
Con la sentenza emessa in data 14 novembre 2019, la Corte d’Assise di Roma riconobbe i carabinieri scelti Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro colpevoli di omicidio preterintenzionale, condannandoli a 12 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre al pagamento delle spese legali e di centomila euro a titolo di provvisionale ad ognuno dei genitori della vittima. Il carabiniere Francesco Tedesco fu assolto dal reato di omicidio preterintenzionale, ma fu condannato a 2 anni e 6 mesi di reclusione per falso, stesso reato per cui il maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini fu condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione e all’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. Per quanto riguarda invece il reato di calunnia contestato a Tedesco, Mandolini e Nicolardi nei confronti dei tre agenti della polizia penitenziaria imputati nel primo processo, esso fu riqualificato dai giudici come falsa testimonianza, ma i tre carabinieri furono assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Con sentenza a parte la Corte quantificherà in seguito i risarcimenti definitivi ai genitori Cucchi e alle parti civili (Roma Capitale, Cittadinanzattiva e i tre agenti della polizia penitenziaria).
Il 7 maggio 2021 la Corte d’Assise d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del 14 novembre 2019, ha rideterminato le pene nei confronti di Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo (a ciascuno 13 anni di reclusione) e Roberto Mandolini (4 anni), confermando nel resto la sentenza della Corte di assise (l’assoluzione di Tedesco dall’accusa di omicidio preterintenzionale e quelle di Mandolini, Nicolardi e dello stesso Tedesco dall’accusa di falsa testimonianza non erano state impugnate dalla pubblica accusa, pertanto sono diventate definitive dopo la sentenza di primo grado).
Il 4 aprile 2022 la Corte Suprema di Cassazione ha condannato in via definitiva per omicidio preterintenzionale i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro, riducendo però loro la pena a 12 anni di reclusione. Per quanto riguarda le posizioni di Tedesco e Mandolini, accusati di aver attestato il falso nel verbale d’arresto, la Suprema Corte ha disposto che debba celebrarsi un nuovo processo d’appello. Il successivo 9 maggio sono state pubblicate le motivazioni della sentenza: ad avviso dei supremi giudici, la morte del geometra romano, seppure sia stata causata anche dalla successiva condotta colposa dei medici dell’ospedale Pertini, è inequivocabilmente connessa al pestaggio da parte dei carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro, i quali non potevano non essere consapevoli delle possibili conseguenze delle loro azioni. Per quanto riguarda Mandolini e Tedesco, invece, secondo la Cassazione i giudici di merito non hanno adeguatamente dimostrato la volontà di Mandolini di occultare le responsabilità dei suoi sottoposti omettendo i loro nomi nel verbale di arresto, che è stato in seguito sottoscritto anche da Tedesco, perciò è stato disposto l’annullamento di questa parte della sentenza con rinvio degli atti ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’appello di Roma; la prescrizione del reato sarebbe scattata il 25 luglio 2022.
Il 21 luglio 2022, alla vigilia della prescrizione del reato, la Corte d’Assise d’appello di Roma ha condannato Mandolini e Tedesco rispettivamente a 3 anni e 6 mesi e a 2 anni e 4 mesi di reclusione.
Il 31 ottobre 2023 la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Assise d’appello per intervenuta prescrizione del reato di falso ideologico, pur confermando la condanna degli imputati al pagamento del risarcimento del danno alle parti civili.
La terza inchiesta (depistaggio)
Il 20 giugno 2018 Francesco Tedesco, uno degli imputati del c.d. “processo-bis” (e considerato da molti un “supertestimone”), aveva presentato alla procura della Repubblica di Roma una denuncia contro ignoti, nella quale lamentava la scomparsa di un’annotazione di servizio da lui redatta il 22 ottobre 2009 e indirizzata ai suoi superiori, nella quale esponeva i fatti accaduti nella notte fra il 15 e il 16 ottobre precedente. In particolare, egli descriveva di avere assistito al pestaggio del geometra romano presso la caserma della Compagnia Roma Casilina da parte dei propri colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, violenza a cui inutilmente aveva cercato di porre fine.
A seguito di tale denuncia, la procura avviò un’indagine affidandola allo stesso sostituto procuratore Musarò, il quale iscrisse nel registro degli indagati con l’accusa di falso ideologico i carabinieri Francesco Di Sano, uno dei due piantoni della caserma di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi la notte in cui era stato arrestato, Massimiliano Colombo Labriola, che all’epoca era il comandante della stazione Roma Tor Sapienza, Luciano Soligo, all’epoca comandante della Compagnia Roma Monte Sacro, da cui la stazione Roma Tor Sapienza dipende, e Francesco Cavallo, all’epoca vice-comandante del Gruppo Roma: essi erano accusati di aver falsificato due annotazioni di servizio sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi con lo scopo di indirizzare l’indagine verso persone che non avevano alcuna responsabilità. Inizialmente sentito dalla procura di Roma come persona informata sui fatti, nel febbraio 2019 fu iscritto nel registro degli indagati per falso ideologico anche il generale di brigata Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma.
Concluse le indagini, il 14 aprile 2019 fu complessivamente chiesto il rinvio a giudizio di 8 militari dell’Arma: Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Luciano Soligo, Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano per falso ideologico; Lorenzo Sabatino, che nel 2015 era il comandante del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma, e Tiziano Testarmata, che nel 2015 era il comandante della IV sezione del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma, per omessa denuncia e favoreggiamento (nel 2015, dopo che la procura li aveva incaricati di acquisire tutti i documenti riguardanti il caso Cucchi, essi avrebbero volontariamente omesso di denunciare all’autorità giudiziaria la falsità ideologica delle due annotazioni di servizio sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi e non avrebbero acquisito il registro originale dei foto-segnalamenti della caserma della Compagnia Roma Casilina, che era stato sbianchettato per occultare il nome di Stefano Cucchi, limitandosi ad acquisirne una copia), e infine Luca De Cianni per falso e calunnia (nel 2018, egli ha redatto un’annotazione di servizio in cui accusava falsamente il collega Riccardo Casamassima di aver chiesto ad Ilaria Cucchi dei soldi in cambio del racconto della verità sul pestaggio del fratello).
La prima udienza preliminare si è tenuta il 21 maggio 2019 e, il 16 luglio 2019, il GUP del tribunale di Roma ha accolto tutte le richieste del PM e disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati.
Il processo per depistaggio ha visto la prima udienza il 12 novembre 2019, con comparizione delle parti civili costituite da Ministero della difesa e Arma dei Carabinieri, nonché dal militare dell’Arma Riccardo Casamassima. In tale sede, il giudice monocratico Federico Bona Galvagno si è astenuto, su istanza del legale della famiglia Cucchi, in quanto carabiniere in congedo. Il processo è quindi proseguito il 16 dicembre 2019 con la giudice Giulia Cavallone, e nel gennaio 2020 il Ministero della difesa è stato ammesso come responsabile civile nel processo, pur essendo parte civile.[Dopo il decesso della giudice Cavallone, avvenuto il 17 aprile 2020 questa è stata sostituita dal dottor Roberto Nespeca
Il 7 aprile 2022, il tribunale di Roma ha dichiarato gli imputati colpevoli di tutti i reati a loro contestati e ha condannato Alessandro Casarsa a 5 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, Francesco Cavallo e Luciano Soligo a 4 anni di reclusione e all’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici, Luca De Cianni a 2 anni e 6 mesi di reclusione, Tiziano Testarmata e Massimiliano Colombo Labriola a 1 anno e 9 mesi di reclusione (pena sospesa per entrambi) e Lorenzo Sabatino e Francesco Di Sano a 1 anno e 3 mesi di reclusione (pena sospesa per entrambi. La quarta inchiesta (depistaggio e falsa testimonianza)
Dal processo per depistaggio, è in seguito scaturita un’ulteriore inchiesta, nella quale sono stati coinvolti i carabinieri Maurizio Bertolino, all’epoca dei fatti contestati in servizio presso la stazione di Tor Sapienza, Fortunato Prospero, all’epoca comandante della sezione infortunistica e polizia giudiziaria del Nucleo operativo radiomobile di Roma, e il collega di quest’ultimo Giuseppe Perri. Essi sono accusati a vario titolo di depistaggio: Bertolino è infatti accusato di aver tentato di occultare l’esistenza nella caserma di Tor Sapienza di alcuni atti relativi all’arresto di Stefano Cucchi, mentre Prospero e Perri sono accusati di aver indotto il carabiniere Luca De Cianni, già condannato per questi fatti nel processo precedente a 2 anni e 6 mesi di reclusione, a calunniare il collega Riccardo Casamassima. Tutti e tre sono inoltre accusati di falsa testimonianza per aver rilasciato dichiarazioni mendaci nel precedente processo per depistaggio. L’udienza preliminare si è tenuta il 21 dicembre 2023. Tra le parti lese, figurano il Ministero della Giustizia, Ilaria Cucchi e suo padre Giovanni, i tre agenti di polizia penitenziaria imputati nel primo processo e il carabiniere Riccardo Casamassima. |