Lunedi scorso Rudra Bianzino ha depositato per la seconda volta alla Procura della Repubblica di Perugia la richiesta di riapertura delle indagini per omicidio volontario ai danni di suo padre, Aldo Bianzino, l’ebanista morto di carcere nel 2007 nella Casa circondariale di Capanne poco dopo il suo arresto dovuto al possesso di alcune piante di cannabis rinvenute nel giardino di casa. Passò nella prigione di Perugia solo qualche giorno mentre anche la sua compagna Roberta Radici era agli arresti. Ma quando lei uscì seppe che Aldo era morto. Come, quando, in che modo? Una vicenda piena di ombre, sotterfugi, silenzi, ritrattazioni e una marea di evidenze che dicevano tutt’altro da quanto stabilirono poi i magistrati: che Aldo era morto per un aneurisma, per morte naturale, e si poteva semmai parlare di omissione di soccorso. Non certo di omicidio.
Diciotto anni dopo, suo figlio Rudra – allora minorenne e spettatore involontario dell’arresto dei genitori in un casale del perugino – è ancora convinto che quel processo fu un porto delle nebbie. «Forse tutti pensavano che dopo tanti anni avessi mollato – ci dice al telefono – ma non è così: ho continuato a lavorare». Spiega di aver già presentato in precedenza la medesima istanza a seguito di esami medico-legali che, già nel corso del procedimento per omissione di soccorso (2007–2015), vennero considerati di fondamentale importanza da un collegio di giudici e da un Gip. Evidenze che rafforzavano l’ipotesi di violenze subite dal padre. Tuttavia, ricorda Rudra, il pubblico ministero incaricato della questione, Giuseppe Petrazzini, non li ritenne di sufficiente rilevanza e rigettò la richiesta.
«È stato un percorso lungo e impegnativo, pieno di imprevisti, dubbi e timori. Ma – ha scritto ieri sulla sua pagina Facebook – non ho mai demorso, convinto di seguire la strada giusta. Non si può e non si deve morire così. Ed è per questo che considero la mia storia una questione che riguarda la società tutta. Troppi sono gli aspetti oscuri di questa vicenda, che chiama in causa le istituzioni stesse, per poter ritenere che abbia avuto una fine giusta e dignitosa».
La vicenda dell’oscura morte di Aldo il 14 ottobre di diciotto anni fa, seppellito in tutta fretta dopo un episodio che decine di udienze non sono riuscite a ricostruire con certezza, ci mise un po’ ad emergere dalla cronaca locale. Poi gli amici, la società civile locale, il partito Radicale con lo stesso Marco Pannella, Beppe Grillo e tanti giornalisti umbri diedero una mano per far luce su un caso che resta ancora oggi una delle storie più drammatiche della vita carceraria che troppe volte si trasforma in morte.
Del tutto casualmente, il passo legale di Rudra, preparato da mesi, è stato deciso mentre usciva nel web l’ultima puntata del podcast «48 ore – Il caso di Aldo Bianzino», un podcast dedicato alla vicenda del padre. Si tratta del lavoro di Elle Biscarini e Sara Calini di Umbria24 che sono tornate sul caso per raccontare una storia piena di lati oscuri con una serie di 9 puntate che han voluto far luce su quelle ombre, sulle risultanze processuali e su una storia giudiziaria la cui versione ufficiale non ha mai convinto. Il contenitore radiofonico «48 ore» esplora quella vicenda con un lavoro meticoloso di ricostruzione durato mesi tra interviste, carte e registrazioni processuali. L’obiettivo preciso – dicono le due giornaliste – è quello esercitare fino in fondo il diritto-dovere di ricostruire e porre domande. Qui il link per ascoltare le puntate.
Rudra ha avviato intanto anche una campagna di raccolta fondi per chi volesse sostenere il suo lavoro e le spese legali, processuali e tecniche legate al ricorso. Si può contribuire qui: |